sabato 15 giugno 2013

“Trascinami dietro di te, corriamo” (Ct 1,4).


IL CAMMINO DELL'UOMO
p. Attilio Franco Fabris

Continua
LA VITA E’ UNA CORSA

Se l’esistenza umana spesso è paragonata al cammino,
essa si trasforma addirittura in una corsa
quando si vuole esprimere un’obbedienza pressante o una missione urgente:
“Non ritengo la mia vita meritevole di nulla,
purché conduca a termine la mia corsa e il servizio
che mi fu affidato dal Signore Gesù” (At 20,24).

Ma correre può stare ad indicare anche  la gioia di una vita giusta e fedele ai sentieri di Dio:
“Io corro sulla via dei tuoi comandamenti perché tu mi hai dilatato il cuore” (Sal 119,32).
“A coloro che sperano nel Signore spuntano delle ali come aquile: corrono e non sono stanchi” (Is 40,31).

Trasferito nel linguaggio del Cantico dei Cantici
questa tensione di tutta l’esistenza al servizio del Signore
diventa la frenesia della sposa rapita di gioia alla voce dello sposo:
“Trascinami dietro di te, corriamo” (Ct 1,4).

E questo ci rimanda significativamente
alla corsa di Pietro e Giovanni al sepolcro del Signore il mattino di Pasqua (cfr. Gv 20,4).

In Paolo l’esistenza cristiana questa corsa diventa una gara sportiva
che esige sacrifici e rinunce per riportare la vittoria:
“Non sapete che nelle corse allo stadio tutti corrono, ma uno solo conquista il premio?
Correte anche voi in modo da conquistarlo!
Però ogni atleta è temperante in tutto, essi lo fanno per ottenere una corona corruttibile,
noi invece una incorruttibile.
Io dunque corro, ma non come chi è senza meta;
faccio il pugilato, ma non come chi batte l’aria,
anzi tratto duramente il mio corpo e lo trascino in schiavitù
perché non succeda che dopo avere predicato agli altri,
venga io stesso squalificato” (1Cor 9,24-27).

La vita del cristiano è un protendersi verso i beni futuri sperati nella fede:
“Dimentico della via percorsa, proiettato con tutto il mio essere in avanti,
io corro diritto verso la meta per riportare il premio della celeste chiamata di Dio in Cristo Gesù” (Fil 3,12).

Quale gioia per il credente poter dire come Paolo al termine del suo cammino:
Ho combattuto sino alla fine la buona battaglia,
ho terminato la corsa,
ho conservato la fede (2 Tm 4,7).


venerdì 14 giugno 2013

i discepoli hanno coscienza di aver trovato la vera strada che fino allora non era manifesta, che essa non è più la Legge ma Cristo stesso


IL CAMMINO DELL'UOMO
p. Attilio Franco Fabris

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CRISTO VIA VIVENTE

Il ritorno dall’esilio è ancora soltanto una immagine della realtà definitiva.

Questa è annunziata dal Battista con gli stessi termini di Isaia:
“Preparate la via del Signore”.

Gesù inaugura un nuovo esodo che porta effettivamente al riposo di Dio (cfr Ebr 4,8s).
Egli chiama gli uomini a seguirlo:
“Seguitemi…” (Mt 4,19).

La trasfigurazione illumina per un istante la strada di Gesù e del discepolo,
prima di iniziare il cammino tortuoso e doloroso della passione. L’ingresso nella gloria non può avvenire se non per la via della croce:: “Se qualcuno vuol venire dietro a me prenda la sua croce…”(Lc 9,23s).

Luca contempla Gesù che si pone risolutamente in cammino verso Gerusalemme, ascesa al cui termine è il suo sacrificio.

E’ un sacrificio che ci apre una nuova strada:
mediante il sangue di Cristo
noi abbiamo ormai accesso al vero santuario;
attraverso la sua carne
Gesù ha inaugurato per noi una via nuova e vivente:
“Avendo dunque, o fratelli, la confidenza di entrare nel santuario, nel sangue di Gesù, via che egli ha inaugurata per noi nuova e vivente attraverso il velo, cioè la sua carne” (Ebr 10,19s).

Negli Atti degli Apostoli il cristianesimo nascente è chiamato “la via”.
Di fatto i discepoli hanno coscienza
di aver trovato la vera strada
che fino allora non era manifesta,
che essa non è più la Legge
ma Cristo stesso:
“Io sono la via”( Gv 14,6).
In lui avviene la vera pasqua e il vero esodo.

In lui dobbiamo camminare:
“Camminate dunque nel Signore Gesù Cristo, come l’avete ricevuto” (Col 2,6).





giovedì 13 giugno 2013

continuare a camminare nelle vie del Signore


IL CAMMINO DELL'UOMO
p. Attilio Franco Fabris

Continua
LA THORAH

Giunto alla terra promessa Israele deve nondimeno continuare a camminare nelle vie del Signore (cfr. Sal 128,1).
Nel dono della Legge Dio ha rivelato al suo popolo “tutta la via della conoscenza”.
Occorre che egli “cammini nella legge del Signore” (Sal 119)
per mantenersi nella sua alleanza ed avanzare verso la luce, la pace e la vita.

La dimenticanza e la disobbedienza al dono della legge porta Israele alla catastrofe.
Egli dovrà essere condotto in esilio,
su una strada che va esattamente a ritroso dell’esodo.

Ma i profeti ricordano al popolo deportato che
Dio è fedele e non si arrende di fronte al peccato;
la sua alleanza non può venir meno,
bisogna perciò “preparare nel deserto una strada per JHWH” (Is 40,3)
perché Israele torni nuovamente salvato
e liberato alla terra promessa ai padri.


mercoledì 12 giugno 2013

l’atteggiamento più importante da parte dell’uomo sarà il riconoscere le strade di Dio e seguirle

IL CAMMINO DELL'UOMO
p. Attilio Franco Fabris

Continua...
LE VIE DI DIO

Abramo si è messo in cammino all’appello di Dio:
“Il Signore disse ad Abram: Vattene dal tuo paese, dalla tua patria e dalla casa di tuo padre verso il paese che io ti indicherò” (Gn 12,1).

Con questa chiamata fatta al padre dei credenti incomincia un grande cammino, durante il quale l’atteggiamento più importante da parte dell’uomo 
sarà 
il riconoscere le strade di Dio e seguirle.

Queste “vie” a volte appaiono sconcertanti:
“Le mie vie non sono le vostre vie” (Is 55,8) dice il Signore che però assicura il loro esito di pienezza di vita.

Di questo cammino l’esodo è l’esempio privilegiato.
Durante questo tempo Israele sperimentò che cosa significa
“camminare con il suo Dio” (Mi 6,8)
ed entrare nella sua alleanza.

Dio stesso
si mette alla testa del suo popolo
per aprirgli la strada verso la vita e la libertà,
e la sua presenza è nube di giorno
e fuoco di notte (cfr Es 13,21).

Il mare simbolo di morte, dell’abisso del caos, non può arrestare il cammino di Dio liberatore:
“Sul mare fu la tua via, il tuo sentiero sulle acque innumerevoli” (Sal 77,20),
cosicché Israele può  sfuggire al giogo di morte degli egiziani ed essere liberato.

Poi c’è la marcia nel deserto:
“Dio quando uscivi davanti al tuo popolo quando camminavi per il deserto”(Sal 68,8).
Dio vi combatte per il suo popolo e lo sostiene come un uomo sostiene il proprio figlio;
gli procura il necessario sostentamento e veglia perché nulla gli manchi.

Ma Dio interviene pure per punire Israele delle sue mancanze di fede.
Il cammino con Dio in effetti è difficile.
Il cammino del deserto è cammino di prova.
Perciò la via di Dio è divenuta lunga e sinuosa. “Per quarant’anni…”.

Ma essa non manca di giungere a compimento:
Dio conduce il suo popolo al riposo, alla terra dove scorre “latte e miele”.

Viene rivelato con ciò come sempre “i sentieri di JHWH sono amore e verità” (Sal 25,10).

Il ricordo del cammino dell’esodo sarà ravvivato ogni anno a Pasqua e nella Festa delle Capanne.
I pellegrinaggi a Gerusalemme contribuiscono a fissare la nozione di “via sacra” che porta a contemplare il volto di Dio.


martedì 11 giugno 2013

Tra queste due vie l’uomo è libero di scegliere ed ha la responsabilità della sua scelta


 IL CAMMINO DI DIO E DELL’UOMO

p. Attilio Franco Fabris

L’uomo “biblico” è un nomade. Nella sua esistenza i concetti di strada, via, sentiero, cammino hanno un valore fondamentale. Con tutta naturalezza egli si serve di questo vocabolario per parlare della sua esperienza umana, morale e religiosa: “Beato il popolo che cammina alla luce del tuo volto”(Sal 89,16);  “Siano diritte le mie vie nel custodire i tuoi precetti”(Sal 119,5).

All’epoca del giudaismo la dottrina delle “due vie” riassume la condotta che gli uomini possono scegliere. Esistono infatti due modi di comportarsi, due diversi cammini: uno buono e l’altro cattivo: “La strada dei giusti è come la luce dell’alba, che aumenta lo splendore fino al meriggio.
  La strada degli empi è come l’oscurità: non sanno dove saranno spinti a cadere” (Pr 4,18s).

La via della virtù  è dunque strada diritta e perfetta (cfr. 1Sam 12,23)
e consiste
nel praticare la giustizia, 
nel praticare la verità, 
nel ricercare la pace.
Tutti gli scritti sapienziali proclamano che questa è la via della vita;
essa assicura
lunghezza e
prosperità di esistenza:
“Per l’uomo assennato la strada della vita è verso l’alto;
  per salvarlo dagli inferi che sono in basso” (Pr 15,24).

La via cattiva invece è tortuosa, 
è quella scelta
dagli insensati,
dai peccatori,
dai malvagi.
Essa porta alla perdizione:
“La via degli empi andrà in rovina” (Sal 1,6), e alla morte:
“Nella strada della giustizia è la vita, il sentiero dei perversi conduce alla morte” (Pr 12,28).

Tra queste due vie l’uomo è libero di scegliere ed ha la responsabilità della sua scelta:
“Vedi io pongo oggi davanti a te
la vita e il bene,
la morte e il male;
poiché io oggi ti comando
di amare il Signore tuo Dio,
di camminare per le sue vie,
di osservare i suoi comandi, le sue leggi e le sue norme,
perché tu viva e ti moltiplichi
e il Signore tuo Dio ti benedica nel paese che tu stai per entrare a prendere in possesso.
Ma se il tuo cuore si volge indietro e
se tu non ascolti e ti lasci trascinare a prostrati davanti ad altri dei e a servirli,
io vi dichiaro oggi
che certo perirete,
che non avrete vita lunga nel paese di cui state per entrare in possesso passando il Giordano…
Io ti ho posto davanti
la vita e la morte,
la benedizione e la maledizione;
scegli dunque la vita,
perché viva tu e la tua discendenza,
amando il Signore tuo Dio,
obbedendo alla sua voce e tenendoti unito a lui,
poiché è lui la tua vita e la tua longevità” (Dt 30,15-20).

Anche Gesù segnala l’angustia del sentiero che conduce alla vita, e l’esiguo numero di coloro che l’imboccano; mentre la maggioranza segue la via larga che conduce alla morte: “Entrate per la porta stretta, perché larga è la porta e spaziosa la via che conduce alla perdizione, e molti sono quelli che entrano per essa; quanto stretta invece è la porta e angusta la via che conduce alla vita, e quanto pochi sono quelli che la trovano” (Mt 7,13s).


Tappe ascetiche e aspetti pratici della Preghiera di Gesù
 O. Clement, J. Serr, LA PREGHIERA DEL CUORE, ed.Ancora

La preghiera deve essere detta « con tutto il pro­prio amore »  e la propria intelligenza, facendo attenzione al senso delle parole; essa elimina la polvere delle immagini mentali che offusca lo « spec­chio » del cuore. Il cuore così purificato « vede se stesso interamente luminoso »,  « si eleva nell’amore e nel desiderio di Dio »,  si scopre ripieno della « luce taborica » che irradia da Cristo trasfi­gurato, diventa quel placido « specchio di Dio » nel quale si imprime la « fotofania » di Cristo e, in essa, la verità degli esseri e delle cose.

Bisogna tener conto tuttavia del fatto che l’oc­cidentale di oggi è assai diverso dal tipo di uomo per il quale sono stati scritti questi testi. L’uomo delle antiche civiltà disponeva di una solida base vitale: era radicato nel silenzio e nella lentezza; conosceva la fatica profonda che, a suo modo, purifica e rinnova. Era vicino agli esseri e alle cose. L’uomo di oggi, l’uomo della civiltà urbana e industriale, vive assai più alla superficie di se stesso, frastornato da rumori e da immagini fuggitive; ha i nervi tesi ma rara­mente conosce la grande e benefica fatica corporale. E’ solo nella folla, ha perso il contatto con le cose, con le vere realtà materiali. Si stordisce di cibo e di impressioni. Per rompere il guscio dell’artificiale e del meccanico, non gli resta che l’erotismo; ma anche questo diventa artificiale e meccanico.

Bisogna dunque trascrivere qui alcune righe per­tinenti di Paul Evdokimov: « Nelle condizioni della vita moderna, sotto il peso dell’affaticamento e dell’usura nervosa, la sensibilità cambia. La medicina protegge e prolunga la vita, ma nello stesso tempo diminuisce la resistenza alla sofferenza e alle pri­vazioni. L’ascesi cristiana è solo un metodo al ser­vizio della vita, perciò cercherà di adattarsi ai bisogni nuovi. La Tebaide eroica imponeva digiuni estremi e costrizioni assai dure: il combattimento di oggi si sposta. L’uomo non ha bisogno di un dolorismo supplementare che rischierebbe di spezzarlo inutilmente: la mortificazione consisterà nel liberarsi da ogni bisogno di doping: velocità, rumore, eccitanti, inebrianti di ogni specie. L’ascesi sarà piuttosto il riposo imposto, la disciplina di calma e di silenzio, periodico e regolare, nel quale l’uomo ritrova la fa­coltà di arrestarsi per la preghiera e per la contem­plazione, anche in mezzo a tutti i rumori del mondo. Il digiuno sarà la rinuncia al superfluo, la condivi­sione con i poveri, un equilibrio sorridente ».

In questo contesto, alcuni dei più esperimentati spirituali ortodossi di oggi sconsigliano di « far di­scendere » la preghiera nel cuore in una maniera volontarista. Si rischia così di turbare il proprio equi­librio nervoso e di perdere irrimediabilmente la pos­sibilità di « trovare il proprio cuore ». Meglio con­tentarsi di utilizzare il ritmo della respirazione e di pregare, quando si può, « con tutto il cuore » nel senso attuale dell’espressione. Un giorno, forse, Dio con la sua grazia farà discendere la preghiera nel cuore: ma bisogna affidarsi totalmente a lui, non irrigidirsi, non volere. L’uomo d’Occidente, dice Hei­degger, è caratterizzato da una « volontà di volontà ». Egli deve innanzitutto imparare ad abbandonarsi, e questo è proprio il senso profondo della “preghiera di Gesù”.

Nicola Cabasilas, che scriveva per dei laici, per gli abitanti delle grandi città, ci è su questo punto di grande aiuto. Non bisogna, dice, voler amare Dio, ma sapere umilmente che egli ci ama. Non bisogna voler conservare il proprio cuore, ma affidarlo al sangue eucaristico. Bisogna partire dal centro, e centro è Cristo, cuore della Chiesa, alter ego di ogni fedele. L’amore risponde all’amore, le forze del cuore irradiato dalla presenza del Signore si liberano. Quel che occorre non è tanto rompere la corteccia dell’esi­stenza per trovare il luogo del cuore, quanto lasciar irradiare il sole del cuore; e questa irradiazione modificherà a poco a poco, dal di dentro, la corteccia dell’esistenza.

Si sa bene, oggi, che un difetto combattuto alla superficie della psiche si nasconde, ma non viene guarito. Si diventa continenti, ma si amano i cibi zuccherati e si hanno suscettibilità da zitella. Si trion­fa di ogni vizio apparente, ma si succhia il sangue alle anime col pretesto di guidarle. Cristo, nel Vangelo, parte sempre dal centro, si rivolge direttamente alla persona, provoca il cambiamento del cuore. La metanoia nel senso pieno del termine, è appunto questo: rovesciare il proprio cuo­re, lasciare che il Signore lo riempia di luce. L’ascesi, poi, consisterà nell’eliminare a poco a poco gli osta­coli che fanno schermo alla luce.

Quando il futuro S. Doroteo entrò in monastero, voleva subito praticare le virtù più ardue e la preghiera perpetua. Il suo padre spirituale, il vegliardo recluso Barsanufio, gli chiese invece di costruire un piccolo ospedale e dedicarsi ai malati. Più tardi Doroteo si lamentava dell’ossessione carnale, e Bar­anufio, in un “contratto” rimasto famoso nella storia della paternità spirituale, gli chiese di non preoccuparsene, poiché egli prendeva tutto su di sé; per contro, Doroteo si impegnava, su punti precisi, a un atteggiamento di umiltà, di fiducia, di carità. Egli partiva dal centro, lasciava irradiare il sole interiore: a poco a poco, le sue tentazioni scomparvero da sole. La “preghiera di Gesù” può aiutarci assai in questa ricostruzione di una base vitale sotto il sole del cuore.

I vecchi monaci dicono che non bisogna temere i momenti di « pleroforia », di pienezza sperimentata nel corpo stesso; essi insegnano, nella prospettiva della risurrezione, un uso non passionale della gioia di essere; chiedono di « circoscrivere l’incorporeo nel corporale », fino a vivere con gratitudine una umile e grave sensazione. Camminare, respirare, nutrirsi, toccare la corteccia dell’albero, tutto può diventare celebrazione. « Il nome di Gesù diventa una specie di chiave che apre il mondo, uno strumento di offerta segreta, una apposizione del sigillo divino su tutto quello che esiste. L’invocazione del nome di Gesù è un metodo di trasfigurazione dell’universo ».

E’ bene che un esercizio di distensione, di presa di coscienza del corpo, termini non con una euforia immanente – o con il sonno – ma con l’invocazione. Più l’uomo si pacifica e si interiorizza, più deve pregare nell’umiltà e nella fiducia, in spirito « di infanzia », teso verso un incontro, in Cristo, con Dio Padre, « abba, Padre », come se pregasse per la prima volta. Solo questo atteggiamento può permettere di utilizzare discretamente certe tecniche asiatiche di concentrazione, tanto di moda oggi.

E’ bene che l’invocazione sia presente nell’amicizia e nell’amore. Quanto alla sua irradiazione necessaria nelle relazioni sociali e nei ritmi di lavoro, potrebbe essere la misura, il criterio di un’azione perseverante e creatrice dei cristiani nella società.

Simultaneamente, ma a poco a poco, interviene la terza tappa, quella della partecipazione alla luce increata nella comunione con il Signore Gesù, comunione trinitaria, come abbiamo detto; perché nell’interiorità dello Spirito ci conduce verso « il seno del Padre ». Gregorio il Sinaita dice che la preghiera comincia a sgorgare nel cuore come le scintille da un fuoco giulivo: la luce increata sì manifesta dapprima con fiammate di indicibile dolcezza. Poi, dice lo stesso Gregorio, nel cuore divenuto cosciente, la preghiera « opera come una luce di buon odore ». Non si tratta tanto di estasi e di visioni: le esaltazioni mistiche dei principianti devono essere rapidamente superate, poiché potrebbero essere fonte di compiacenza e di orgoglio. Il Signore allora si ritira perché l’uomo conosca l’ultimo spogliamento, partendo dal quale verrà deificato, ma per pura grazia.

I grandi spirituali chiedono di diffidare delle visioni, perché Satana può travestirsi in angelo di luce. La liturgia, la salmodia, le icone soprattutto, tendono a introdurre l’asceta, al di là di ogni fantasma, in una sobria e realissima comunione. I criteri del cammino giusto sono la pace, la dolcezza, l’umiltà, e non l’esaltazione che lascia l’anima turbata; soprattutto la capacità di amare i propri nemici, secondo il precetto evangelico. Certo, i più grandi - i più umili – quelli che hanno raggiunto lo stadio della preghiera ininterrotta hanno, per di più, attraversato i mondi angelici, penetrando fino al trono di Dio (il cuore infiammato si identifica qui con il carro di Elia, come nella mistica ebraica), hanno conosciuto i fondamenti del mondo creato e gli esiti finali della storia, sono stati visitati dalla Madre di Dio e dai santi. Ma il risultato normale di questa ascesi è, partendo dal cuore, la trasfigurazione del quotidiano con una luce che è anche un fuoco e che non è un’emanazione anonima, ma l’irradiazione stessa del Risorto, la presenza se­greta dello Spirito, la trasformazione della trascendenza inaccessibile in paternità amorevole. La visione, l’audizione, l’intelligenza, l’amore, tutto si raccoglie in un’unica sensazione di Dio: tutto è luce, ma questa luce è increata, ossia rimanda a una sorgente insieme inaccessibile per essenza e partecipabile per grazia. Tutto è luce, ma questa luce è il contenuto di un incontro, di una comunione.

L’uomo entra allora in un ritmo inesauribile di in-stasi/ex-stasi. S. Gregorio di Nissa, partendo da un participio paolino (« teso verso ») ha formato qui il termine di epectasi , dove epi designa l’in-stasi, l’infinita prossimità di Dio che tutto intero si rende partecipabile, mentre ek designa l’e-stasi, la tensione amante verso questo Dio la cui distanza non si cancella, « quello che si cerca sempre » nell’in-conoscenza della fede, poiché tutto intero egli resta inaccessibile.

Questa distanza incessantemente colmata in Cristo, e incessantemente riaperta verso l’abisso del Padre, questa distanza-partecipazione costituisce il luogo stesso dello Spirito; si iscrive e ci iscrive nel mistero della Trinità. L’anima in via di deificazione, il cuore cosciente che s’infiamma e s’invola con le ali della colomba, diventa, per riprendere un’espressione di Jean Daniélou, un universo spirituale in espansione. E ciò che è vero della relazione con Dio, lo diventa della relazione con il prossimo, come dello stupore davanti alla cosa più umile. L’ascesi neptica ci fa definitivamente comprendere che il cristianesimo non è una ideologia, che non è un sapere assoluto, ma è la non-conoscenza amante della fede e della diaconia. Più conosco Dio, e più egli mi diventa meravigliosamente sconosciuto; più conosco il prossimo, e più lo incontro con lo stupore della prima volta. Più conosco la creazione di Dio, e più sono colto dal suo mistero (vi sarebbe qui, io credo, il germe di una nuova logica scientifica, che mostri che cos’è l’irriducibilità del mistero che suscita il dinamismo della ricerca).

La vita eterna comincia così fin da quaggiù. Si va « di inizio in inizio, attraverso inizi che non hanno mai fine », come dice Gregorio di Nissa. Non si tratta di « evadere dal tempo », come nella mistica dell’India, o di abolire il tempo come nel nirvana buddistico, ma di accedere a una temporalità propriamente ecclesiale, calcedonese nella quale il tempo e l’eternità si uniscono « senza separazione e senza confusione ». Il ritmo di questa temporalità è quello della morte-risurrezione, della croce pasquale. Esso introduce nelle situazioni di morte della nostra esistenza – fino all’estrema agonia – l’esperienza che si concentra in quella del martire. I martiri, nella storia della Chiesa, sono stati i primi venerati come santi. Un martire non è semplicemente, come troppo spesso si è creduto, qualcuno che dà la vita per le sue idee: un martire è colui che, nell’orrore della tortura e della morte, si abbandona umilmente al Crocifisso-Risorto, e così si trova ripieno della gioia della risurrezione. « Macinato dal dente delle fiere », diventa « pane eucaristico », come diceva Ignazio il Teoforo. Ugualmente, il monaco, nella tradizione antica, è insieme « stauroforo » e « pneumatofòro », portatore della croce e portatore dello Spirito, colui che « dà il suo sangue e riceve lo Spirito », e con ciò stesso « un risuscitato », capace di conoscere fin nel suo corpo una pienezza ineffabile.

Questa temporalità fa affiorare grandi falde di pace e di luce nella densità degli esseri e delle cose, nella monotonia dei compiti quotidiani. L’instasi-estasi nell’incontro con l’altro diventa servizio, amore attivo e inventivo. Questa temporalità, infine, ha sapore di silenzio. Non il cattivo silenzio del vuoto e della disperazione, il silenzio gelido della solitudine, ma il silenzio pieno, il silenzio divino, quel « linguaggio del mondo futuro », come diceva Isacco il Siro. L’invocazione deve allora aprirsi sul silenzio. All’inizio con brevi momenti di silenzio intercalati tra gli appelli. Poi in una specie di aleggiamento interiore, nell’azzurro d’un cuore cosciente, secondo una penetrazione dell’interiorità “pneumatica” del Nome di Gesù. Poiché il silenzio riposa nel Nome come lo Spirito, da tutta l’eternità, riposa nel Verbo, come costituisce l’unzione messianica, cristica, del Verbo incarnato. E quando lo Spirito è presente, non bisogna più pregare, ma tacere in lui, per riprendere, ad esempio, l’insegnamento di S. Serafino di Sarov. Si dice sempre che la mistica liturgica, nella Chiesa ortodossa, è al servizio della Parola; ma è anche al servizio del silenzio: apre la parola su un interno di silenzio. La stessa cosa avviene per il gregoriano.

La “preghiera di Gesù” fa del cuore di ciascuno una cella monastica, dove egli è « solo con il Solo », nel silenzio. L’ascesi neptica insegna a tacere. Ma il silenzio cristiano è inseparabile da una parola rinnovata. A un dato momento, il silenzioso, l’esicasta, riceve il carisma della parola di vita: che va dal cuore al cuore, parola-seme.

Uno degli affreschi più noti dell’Athos rappresenta un monaco crocifisso, ma che emana fiamme. Quelli che sono come lui, sono “uomini apostolici”, che parlano di ciò che esperimentano, e la cui parola è piena di tutta la potenza dello Spirito. Gli altri – ed è quello che io sto tentando – si contentano, facendosi piccoli, di portare la loro testimonianza, e cercano di essere, con la parola o con la penna, ciò che un pittore di icone è con il pennello.

lunedì 10 giugno 2013

vogliamo prendere coscienza che di fronte alla vita... non possiamo assumere atteggiamenti errati


L’uomo: viator e peregrinus
di p. Attilio Franco Fabris

Ma la rivelazione biblica si parla di un Dio personale e creatore,
che intesse un dialogo con l’uomo.
Un Dio che ha dato un inizio alla storia e al quale questa appartiene.
Con la rivelazione nasce il concetto di storia
come luogo teologico,
in cui si intesse un rapporto,
una storia di alleanza
che apre la storia continuamente al futuro di Dio,
impedendo al credente di ricadere
sia in una visione ciclica della storia stessa,
come nel suo svuotamento di significato.

La nostra società umana e ciascuno di noi
si colloca in un punto preciso del tempo,
con una tensione aperta a diverse possibilità.

Ci vediamo situati in una tensione
tra un passato già realizzato
e un futuro sempre aperto.

Siamo certi che è possibile intervenire
nel divenire storico
attraverso le nostre decisioni,
il nostro lavoro e la nostra testimoniaza fattiva di credenti.

Siamo altresì consapevoli
che il nostro cammino deve essere assunto
come compito da svolgere responsabilmente
sia verso se stessi
ma anche verso gli altri.
Non è indifferenti che io porti o no a compimento il mio viaggio:
esso non sarà compiuto da nessun altro.
Esso è rimarrà unico.

Per ciascuno il presente è l’aspetto predominante,
l’unico realmente posseduto.
Un presente però che si estende
sia nelle radici del passato
come nella progettualità del futuro.
Il passato è passato
in quanto rimane nel presente come “memoria”,
fondamento del mio attuale esistere.
Il futuro appare futuro
perché già ora,
nel presente è anticipato
come appello, compito, progetto di crescita.
L’uomo è soggetto di speranza.

Si tratta dunque di un presente
teso dinamicamente tra passato e futuro.
Se ciò non fosse sarebbe ridotto
ad un semplice istante sospeso
nel vuoto, nel nulla.

Con queste considerazioni
vogliamo prendere coscienza che di fronte alla vita,
a questo nuovo millennio che ci si apre dinanzi,
non possiamo assumere atteggiamenti errati.

Essi potrebbero essere sintetizzati così:
-          il fatalismo e la rassegnazione:
è una forte tentazione in questa fase storica di passaggio in cui
ci  sembra  spesso di brancolare del buio.
-          L’alibi:
il cercare giustificazioni
per non assumersi la resposabilità del proprio e altrui cammino
-          Il ripiegamento
sull’istante privo di “memoria” e di “speranza”, e di progettualità.

domenica 9 giugno 2013

Per la storia rimaneva uno sguardo di commiserazione e rassegnazione: una povera valle di lacrime dalla quale occorre sfuggire al più presto.

L’uomo: viator e peregrinus
di p. Attilio Franco Fabris

Se guardiamo alle civiltà arcaiche
(all’antica Grecia per esempio o anche alle filosofie orientali)
restiamo colpiti dal fatto
che il tempo è svuotato in un certo senso di rilevanza.
In esse è viva l’angoscia della vita che sfugge
sia a livello di individuo come di cosmo…
occorre sfuggirvi ad ogni costo.
Lo strumento è la visione mitica di un tempo ciclico,
ovvero di un eterno ritorno e incessabile ripetersi delle cose:
e questo rende possibile il recupero di tutto
ciò che sembra vada irrimediabilmente perduto.
Forse il viaggio di Ulisse ne è l’emblema più significativo.

Ovvio che per far questo sia indispensabile sganciarsi
dal valore della continuità degli eventi quotidiani;
essi assumono significato solo alla luce di un proiettarsi al di là di essi,
in un tempo mitico che solo è reale.

Sulla stessa linea,
ma con motivazioni diverse,
le filosofie dei secoli passati,
tralasciando l’insegnamento biblico,
posero l’accento e l’attenzione sugli aspetti immutabili dell’uomo:
ovvero sulla sua essenza, sulla sua natura, sulla sua anima.
La sua storicità passava in second’ordine.
Non interessava più di tanto perché ciò che è più vero
e più importante è ciò che è al di là del tempo,
ciò che è eterno.

Per la storia rimaneva uno sguardo di commiserazione e rassegnazione:
una povera valle di lacrime dalla quale occorre sfuggire al più presto.

La filosofia esistenzialista porterà al centro proprio l’uomo,
in questo figlia del rinascimento e dell’illuminismo,
nel suo collocarsi nel mondo e nella storia.
L’esistenza appare come un “cammino”, un “compito da assolvere”.
Si è compreso, reagendo alla visione precedente che guardava all’essenza e all’eterno,
che l’esistenza umana è esistenza temporale,
che non si realizza in un solo momento,
ma in una continua successione di tempi,
strettamente vincolati tra loro.
Ed è così che si approda ad una visione di uomo “adulto”,
trasformato dalla storia che vive
ma altresì capace di trasformare la storia stessa.

In questa linea nuove correnti filosofiche accentueranno
che ormai l’unico protagonista della storia
è l’uomo e solo lui.
(Si pensi al marxismo, alle correnti storicistiche, ad autori esistenzialisti come J.P. Sartre).
Per essi:
“L’uomo sarà in seguito, e sarà quale si sarà fatto… l’uomo non è altro che ciò che si fa”.

Uno sguardo alla nostra cultura rivela un ulteriore accostamento alla storia.

L’uomo di oggi ha scelto di rinunciare alla storia
per ripiegarsi sull’istante.
Il momento attuale va vissuto con la massima intensità (di piacere) possibile.
La nostra cultura vede la ricerca affannosa, angosciata
di una moltiplicazione di istanti,
che vorrebbero tentare di riempire il vuoto
lasciato da una mancata progettualità,
e da una mancanza “di memoria” per il proprio passato.
Disancorato dal passato e dal futuro l’uomo di oggi
si ritrova sospeso sull’istante,
ma sospeso sul vuoto.
E nessuno è più perso di colui che non sa dove andare.