sabato 21 gennaio 2017

La libertà ti è stata data in dono, come tutte le perle preziose della vita, ma ne scopri il valore solo quando ti metti a cercarla, dentro di te,


Da ieri sera 
la parola ‘libertà’ è ancora più preziosa, 
come di quel tale che dopo aver ricevuto in dono dal monaco vagabondo una pietra di infinito valore, capisce che la vera ricchezza è di chi ha in se la libertà che gli permette di dar via una pietra preziosa, non più schiavo degli attaccamenti.
La libertà ti è stata data in dono, come tutte le perle preziose della vita, ma ne scopri il valore solo quando ti metti a cercarla, dentro di te, facendoti strada con fatica quotidiana tra gli attaccamenti che il mondo e noi stessi ci inventiamo giorno dopo giorno.
Hesse scrive:
“Sì, dica sì a se stesso,
alla Sua peculiarità,
ai Suoi sentimenti,
al Suo destino!
Non c'è altra via.
Dove conduca non lo so,
ma va verso il centro della vita, della realtà,
nel pieno dell'ardore e del necessario.”
Credo davvero che Dio si sia riservato un posto, dentro di noi, in profondità, dove sappiamo abita la nostra parte più vera, quella che desidera verità, quella più semplice.
Noi a volte sentiamo il profumo di libertà, e forse basta quello per farcela anelare, per darci la spinta forte alla ricerca di quel pezzettino di libertà che da solo spezza catene di schiavitù.
Giorgio Bonati

venerdì 20 gennaio 2017

Una vita diventata più dura e insopportabile della morte.

«Lasciami»
grida Giobbe a Dio, supplicandolo di liberarlo dalla vita.
Una vita diventata più dura e insopportabile della morte.
Il pensiero corre alla pagina biblica davanti alla drammatica vicenda di Fabiano, il giovane tetraplegico che per sé invoca la morte davanti a una vita che pare senza più speranza.
Lucide sono le parole di Giobbe il quale,
dopo
un tempo di successi in ogni campo (affettivo, economico, politico: era stato ricchissimo, aveva avuto una famiglia meravigliosa, era stato stimato e rispettato come uno degli uomini più influenti della sua città)
adesso
che ha perso repentinamente ricchezze, figli, potere e salute, preferirebbe morire. La morte – considera Giobbe – è migliore della vita:
«Lì il prigioniero non deve sopportare la voce dell’aguzzino».
Meglio le tenebre della morte – che pongono fine a ogni dolore – di una vita fatta di sofferenza atroce e dolore senza fine.
Ma ciò che più inquieta Giobbe è
la ragione di tale dolore,
impossibile da spiegare,
un mistero davanti al quale egli non rinuncia a interpellare Dio.
Non segue il consiglio di sua moglie e dei suoi amici che lo invitano a prendere atto della rovina e ad accettare sia il dolore sia la morte.
La 'rivolta' di Giobbe sta nella protesta, nella contestazione:

perché mi sono toccati giorni di dolore? 

Sul filo sospeso di questa domanda
Giobbe continua a vivere e a non consegnarsi alla morte.

Dal Cielo non verranno risposte facili, né veloci.

Ma Dio continuerà a tenere fisso lo sguardo su di lui e non lo lascerà.
In quello sguardo ecco la ragione e la forza per non abbandonarsi alla morte.
La dignità di ogni vita umana si fonda sullo sguardo dell’Altro.
Giobbe non accetta ragioni 'oggettive' o autonome per consegnarsi alla vita o alla morte,
ma chiama in causa Qualcuno, fin dall’inizio e in ogni cosa coinvolto con il suo destino.
Di fronte al dolore dell’innocente e alla morte dell’uomo neppure Dio può tirarsi indietro.
Con il dolore Dio mette alla più dura prova Giobbe,
ma Giobbe reagisce chiamando Dio a paragone.
E alla fine vincerà.
«Prima ti conoscevo per sentito dire – concluderà –, ma ora i miei occhi ti vedono».
Dentro il buio della vita.

Quel grido di Giobbe dentro il buio del dolore
di Rosanna Virgili
in “Avvenire” del 20 gennaio 2017

giovedì 19 gennaio 2017

Il fatto è che oggi ci sono molti che sono come i due discepoli di Emmaus

SERVE UNA CHIESA -
«Anzitutto
non bisogna cedere 
alla paura di cui parlava il beato John Henry Newman:
«Il mondo cristiano sta gradualmente diventando sterile, e si esaurisce come una terra sfruttata a fondo che diviene sabbia».
Non bisogna cedere
al disincanto, allo scoraggiamento, alle lamentele.
Abbiamo lavorato molto e, a volte, ci sembra di essere degli sconfitti, e abbiamo il sentimento di chi deve fare il bilancio di una stagione ormai persa, guardando a coloro che ci lasciano o non ci ritengono più credibili, rilevanti.

Rileggiamo in questa luce, ancora una volta, l’episodio di Emmaus (cfr Lc 24, 13-15).

I due discepoli scappano da Gerusalemme.
Si allontanano dalla “nudità” di Dio.
Sono scandalizzati dal fallimento del Messia nel quale avevano sperato e che ora
appare irrimediabilmente sconfitto, umiliato, anche dopo il terzo giorno (vv. 17-21).
Il mistero difficile
della gente che lascia la Chiesa;
di persone che, dopo essersi lasciate illudere da altre proposte,
ritengono che ormai la Chiesa - la loro Gerusalemme - non possa offrire più
qualcosa di significativo e importante.

E allora vanno per la strada da soli, con la loro delusione.
Forse la Chiesa è apparsa
troppo debole,
forse troppo lontana dai loro bisogni,
forse troppo povera per rispondere alle loro inquietudini,
forse troppo fredda nei loro confronti,
forse troppo autoreferenziale,
forse prigioniera dei propri rigidi linguaggi,
forse il mondo sembra aver reso la Chiesa
un relitto del passato,
insufficiente per le nuove domande;
forse la Chiesa aveva risposte per l’infanzia dell’uomo
ma non per la sua età adulta.

Il fatto è che oggi ci sono molti che sono come i due discepoli di Emmaus;
non solo coloro che cercano risposte nei nuovi e diffusi gruppi religiosi,
ma anche coloro che sembrano ormai senza Dio sia nella teoria che nella pratica.

Di fronte a questa situazione che cosa fare?

Serve una Chiesa
che non abbia paura di entrare nella loro notte.
Serve una Chiesa
capace di incontrarli nella loro strada.
Serve una Chiesa
in grado di inserirsi nella loro conversazione.
Serve una Chiesa
che sappia dialogare con quei discepoli,
i quali, scappando da Gerusalemme, vagano senza meta, da soli,
con il proprio disincanto,
con la delusione di un Cristianesimo ritenuto ormai terreno
sterile,
infecondo,
incapace di generare senso».
papa Francesco, Ai vescovi brasiliani – 27 luglio 201

mercoledì 18 gennaio 2017

Paura

LA GRANDE PAURA
La storia della mia persona
è la storia di una grande paura
di essere me stessa,
contrapposta alla paura di perdere me stessa,
contrapposta alla paura della paura.

Non poteva essere diversamente:
nell’apprensione si perde la memoria,
nella sottomissione tutto.

Non poteva
la mia infanzia,
saccheggiata dalla famiglia,
consentirmi una maturità stabile, concreta.
Né la mia vita isolata
consentirmi qualcosa di meno fragile
di questo dibattermi tra ansie e incertezze.

All’infanzia sono sopravvissuta,
all’età adulta sono sopravvissuta.
Quasi niente rispetto alla vita.
Sono sopravvissuta, però.
E adesso, tra le rovine del mio essere,
qualcosa, una ferma utopia, sta per fiorire.
 Piera Oppezzo

Si ha paura di migliaia di cose, del dolore, dei giudizi,del proprio cuore, si ha paura del sonno, del risveglio, paura della solitudine, del freddo, della follia, della morte.
Specialmente di quest’ultima, della morte.
Ma sono tutte maschere, travestimenti.
In realtà c’è una sola paura: quella di lasciarsi cadere, di fare quel passo verso l’ignoto lontano da ogni certezza possibile.
(Hermann Hesse)

martedì 17 gennaio 2017

Paure

Si ha paura di migliaia di cose,
del dolore,
dei giudizi,
del proprio cuore,
si ha paura
del sonno,
del risveglio,
paura
della solitudine,
del freddo,
della follia,
della morte.
Specialmente di quest’ultima,

della morte.

Ma sono tutte maschere, travestimenti.

In realtà c’è una sola paura:
quella di lasciarsi cadere,
di fare quel passo verso l’ignoto lontano da ogni certezza possibile.
(Hermann Hesse)

lunedì 16 gennaio 2017

qualsiasi tentativo per saperne di più fa presto a sembrare indiscrezione, sia all'imperatore sia allo schiavo.

(...)
L'osservazione diretta degli uomini
è una norma ancora meno completa, limitata com'è, nella maggior parte dei casi,
alle constatazioni piuttosto grette di cui la maldicenza umana si pasce.
Il rango, la posizione, i casi della nostra vita
restringono inoltre il campo visivo dell'osservatore:
il mio schiavo ha possibilità completamente diverse
da quelle che io ho per osservar lui; e tanto brevi quanto le mie.
Son venti anni che il vecchio Euforione mi porge il flacone dell'olio e la spugna,
ma la mia conoscenza di lui si ferma al suo compito,
e la sua di me al mio bagno;
e qualsiasi tentativo per saperne di più fa presto a sembrare indiscrezione,
sia all'imperatore sia allo schiavo.
Quel che sappiamo sul conto degli altri è quasi tutto di seconda mano.
Se per caso qualcuno si confida, non fa che perorare la sua causa;
la sua apologia è già pronta. Se lo osserviamo, non è solo.
Mi è stato rimproverato di leggere con piacere i rapporti della polizia di Roma;
vi scopro continuamente di che stupire;
amici o sospetti, sconosciuti o familiari, questa gente mi sorprende;
le loro follie mi servono di scusante alle mie.
Non mi stanco mai di paragonare la persona tutta vestita all'uomo nudo.
Ma questi rapporti ingenuamente circostanziati
aumentano il fascio dei miei documenti
e non mi danno l'ombra d'un aiuto per emettere un verdetto.
Che il tale magistrato dall'aspetto austero abbia commesso un delitto
non mi consente affatto di conoscerlo meglio.
Ormai, mi trovo in presenza di due fenomeni anziché di uno solo,
l'apparenza del magistrato e il suo delitto.
Quanto all'osservazione di me stesso, mi ci costringo,
non foss' altro che per entrare a far parte di questo individuo
in compagnia del quale mi toccherà vivere fino all'ultimo giorno;
ma una familiarità che dura da quasi sessant'anni
comporta ancora parecchie probabilità di errore.
Nel profondo, la mia conoscenza di me stesso è oscura;
interiore, inespressa, segreta come una complicità.
Dal punto di vista più impersonale, è gelida,
tanto quanto le teorie che posso elaborare sui numeri:
mi valgo di quel po' d'intelligenza che ho per esaminare più dall'alto,
da lontano, la mia vita, che, in tal modo, diventa la vita di un altro.
Ma questi due procedimenti della conoscenza di sé sono difficili,
ed esigono, l'uno che ci si cali entro se stessi, l'altro che ci si ponga all'esterno.
Per inerzia, tendo come tutti a sostituirvi mezzi meramente consuetudinari,
un'idea della mia vita parzialmente modificata
dall'idea che se ne forma il pubblico:
giudizi bell'e fatti, cioè a dire mal fatti, come un modello già preparato
sul quale un sarto maldestro adatti a fatica la nostra stoffa.
Strumenti di valore ineguale, utensili più o meno logori; ma non ne possiedo altri:
me ne servo per foggiarmi alla meglio un'idea del mio destino d'uomo.


(Marguerite Yourcenar; "Memorie di Adriano")


domenica 15 gennaio 2017

con l'andar del tempo, la vita m'ha chiarito i libri.

Come chiunque altro,
io non dispongo che di tre mezzi per valutare l'esistenza umana:
lo studio di se stessi è il metodo più difficile, il più insidioso, ma anche il più fecondo;
l'osservazione degli uomini, i quali nella maggior parte dei casi s'adoperano per nasconderci i loro segreti o per farci credere di averne;
e i libri, con i caratteristici errori di prospettiva che sorgono tra le righe.
Ho letto, più o meno, tutto quel che è stato scritto dai nostri storici, dai nostri poeti, persino dai favolisti, benché questi ultimi siano considerati frivoli,
e son loro debitore d'un numero d'informazioni, forse, maggiore di quante ne abbia raccolte nelle esperienze pur tanto varie della mia stessa vita.
La parola scritta m'ha insegnato ad ascoltare la voce umana, press' a poco come gli atteggiamenti maestosi e immoti delle statue m'hanno insegnato ad apprezzare i gesti degli uomini.
Viceversa, con l'andar del tempo, la vita m'ha chiarito i libri. 
Ma questi mentono, anche i più sinceri.
I meno abili, in mancanza di parole e di frasi nelle quali racchiuderla, colgono, della vita, un'immagine povera e piatta; altri, come Lucano, l'appesantiscono, l'ammantano di una dignità che non possiede.
Altri ancora, al contrario, come Petronio, l'alleggeriscono, ne fanno una palla vuota e saltellante, che è facile prendere e lanciare in un universo senza peso.
I poeti ci trasportano in un mondo più vasto, o più bello, più ardente o più dolce di quello che ci è dato; per ciò appunto, diverso, e, in pratica, pressoché inabitabile.
I filosofi sottopongono la realtà, per poterla studiare allo stato puro, press' a poco alle stesse trasformazioni che subiscono i corpi sotto l'azione del fuoco e del macero: di un essere o di un avvenimento, quali li abbiamo conosciuti noi, pare non sussista nulla in quei cristalli o in quella cenere.
Gli storici ci propongono una visione sistematica del passato, troppo completa, una serie di cause ed effetti troppo esatta e nitida per aver mai potuto esser vera del tutto; rimodellano questa docile materia inanimata, ma io so che anche a Plutarco sfuggirà sempre Alessandro. (...)
(Marguerite Yourcenar; "Memorie di Adriano")