martedì 11 giugno 2013


Tappe ascetiche e aspetti pratici della Preghiera di Gesù
 O. Clement, J. Serr, LA PREGHIERA DEL CUORE, ed.Ancora

La preghiera deve essere detta « con tutto il pro­prio amore »  e la propria intelligenza, facendo attenzione al senso delle parole; essa elimina la polvere delle immagini mentali che offusca lo « spec­chio » del cuore. Il cuore così purificato « vede se stesso interamente luminoso »,  « si eleva nell’amore e nel desiderio di Dio »,  si scopre ripieno della « luce taborica » che irradia da Cristo trasfi­gurato, diventa quel placido « specchio di Dio » nel quale si imprime la « fotofania » di Cristo e, in essa, la verità degli esseri e delle cose.

Bisogna tener conto tuttavia del fatto che l’oc­cidentale di oggi è assai diverso dal tipo di uomo per il quale sono stati scritti questi testi. L’uomo delle antiche civiltà disponeva di una solida base vitale: era radicato nel silenzio e nella lentezza; conosceva la fatica profonda che, a suo modo, purifica e rinnova. Era vicino agli esseri e alle cose. L’uomo di oggi, l’uomo della civiltà urbana e industriale, vive assai più alla superficie di se stesso, frastornato da rumori e da immagini fuggitive; ha i nervi tesi ma rara­mente conosce la grande e benefica fatica corporale. E’ solo nella folla, ha perso il contatto con le cose, con le vere realtà materiali. Si stordisce di cibo e di impressioni. Per rompere il guscio dell’artificiale e del meccanico, non gli resta che l’erotismo; ma anche questo diventa artificiale e meccanico.

Bisogna dunque trascrivere qui alcune righe per­tinenti di Paul Evdokimov: « Nelle condizioni della vita moderna, sotto il peso dell’affaticamento e dell’usura nervosa, la sensibilità cambia. La medicina protegge e prolunga la vita, ma nello stesso tempo diminuisce la resistenza alla sofferenza e alle pri­vazioni. L’ascesi cristiana è solo un metodo al ser­vizio della vita, perciò cercherà di adattarsi ai bisogni nuovi. La Tebaide eroica imponeva digiuni estremi e costrizioni assai dure: il combattimento di oggi si sposta. L’uomo non ha bisogno di un dolorismo supplementare che rischierebbe di spezzarlo inutilmente: la mortificazione consisterà nel liberarsi da ogni bisogno di doping: velocità, rumore, eccitanti, inebrianti di ogni specie. L’ascesi sarà piuttosto il riposo imposto, la disciplina di calma e di silenzio, periodico e regolare, nel quale l’uomo ritrova la fa­coltà di arrestarsi per la preghiera e per la contem­plazione, anche in mezzo a tutti i rumori del mondo. Il digiuno sarà la rinuncia al superfluo, la condivi­sione con i poveri, un equilibrio sorridente ».

In questo contesto, alcuni dei più esperimentati spirituali ortodossi di oggi sconsigliano di « far di­scendere » la preghiera nel cuore in una maniera volontarista. Si rischia così di turbare il proprio equi­librio nervoso e di perdere irrimediabilmente la pos­sibilità di « trovare il proprio cuore ». Meglio con­tentarsi di utilizzare il ritmo della respirazione e di pregare, quando si può, « con tutto il cuore » nel senso attuale dell’espressione. Un giorno, forse, Dio con la sua grazia farà discendere la preghiera nel cuore: ma bisogna affidarsi totalmente a lui, non irrigidirsi, non volere. L’uomo d’Occidente, dice Hei­degger, è caratterizzato da una « volontà di volontà ». Egli deve innanzitutto imparare ad abbandonarsi, e questo è proprio il senso profondo della “preghiera di Gesù”.

Nicola Cabasilas, che scriveva per dei laici, per gli abitanti delle grandi città, ci è su questo punto di grande aiuto. Non bisogna, dice, voler amare Dio, ma sapere umilmente che egli ci ama. Non bisogna voler conservare il proprio cuore, ma affidarlo al sangue eucaristico. Bisogna partire dal centro, e centro è Cristo, cuore della Chiesa, alter ego di ogni fedele. L’amore risponde all’amore, le forze del cuore irradiato dalla presenza del Signore si liberano. Quel che occorre non è tanto rompere la corteccia dell’esi­stenza per trovare il luogo del cuore, quanto lasciar irradiare il sole del cuore; e questa irradiazione modificherà a poco a poco, dal di dentro, la corteccia dell’esistenza.

Si sa bene, oggi, che un difetto combattuto alla superficie della psiche si nasconde, ma non viene guarito. Si diventa continenti, ma si amano i cibi zuccherati e si hanno suscettibilità da zitella. Si trion­fa di ogni vizio apparente, ma si succhia il sangue alle anime col pretesto di guidarle. Cristo, nel Vangelo, parte sempre dal centro, si rivolge direttamente alla persona, provoca il cambiamento del cuore. La metanoia nel senso pieno del termine, è appunto questo: rovesciare il proprio cuo­re, lasciare che il Signore lo riempia di luce. L’ascesi, poi, consisterà nell’eliminare a poco a poco gli osta­coli che fanno schermo alla luce.

Quando il futuro S. Doroteo entrò in monastero, voleva subito praticare le virtù più ardue e la preghiera perpetua. Il suo padre spirituale, il vegliardo recluso Barsanufio, gli chiese invece di costruire un piccolo ospedale e dedicarsi ai malati. Più tardi Doroteo si lamentava dell’ossessione carnale, e Bar­anufio, in un “contratto” rimasto famoso nella storia della paternità spirituale, gli chiese di non preoccuparsene, poiché egli prendeva tutto su di sé; per contro, Doroteo si impegnava, su punti precisi, a un atteggiamento di umiltà, di fiducia, di carità. Egli partiva dal centro, lasciava irradiare il sole interiore: a poco a poco, le sue tentazioni scomparvero da sole. La “preghiera di Gesù” può aiutarci assai in questa ricostruzione di una base vitale sotto il sole del cuore.

I vecchi monaci dicono che non bisogna temere i momenti di « pleroforia », di pienezza sperimentata nel corpo stesso; essi insegnano, nella prospettiva della risurrezione, un uso non passionale della gioia di essere; chiedono di « circoscrivere l’incorporeo nel corporale », fino a vivere con gratitudine una umile e grave sensazione. Camminare, respirare, nutrirsi, toccare la corteccia dell’albero, tutto può diventare celebrazione. « Il nome di Gesù diventa una specie di chiave che apre il mondo, uno strumento di offerta segreta, una apposizione del sigillo divino su tutto quello che esiste. L’invocazione del nome di Gesù è un metodo di trasfigurazione dell’universo ».

E’ bene che un esercizio di distensione, di presa di coscienza del corpo, termini non con una euforia immanente – o con il sonno – ma con l’invocazione. Più l’uomo si pacifica e si interiorizza, più deve pregare nell’umiltà e nella fiducia, in spirito « di infanzia », teso verso un incontro, in Cristo, con Dio Padre, « abba, Padre », come se pregasse per la prima volta. Solo questo atteggiamento può permettere di utilizzare discretamente certe tecniche asiatiche di concentrazione, tanto di moda oggi.

E’ bene che l’invocazione sia presente nell’amicizia e nell’amore. Quanto alla sua irradiazione necessaria nelle relazioni sociali e nei ritmi di lavoro, potrebbe essere la misura, il criterio di un’azione perseverante e creatrice dei cristiani nella società.

Simultaneamente, ma a poco a poco, interviene la terza tappa, quella della partecipazione alla luce increata nella comunione con il Signore Gesù, comunione trinitaria, come abbiamo detto; perché nell’interiorità dello Spirito ci conduce verso « il seno del Padre ». Gregorio il Sinaita dice che la preghiera comincia a sgorgare nel cuore come le scintille da un fuoco giulivo: la luce increata sì manifesta dapprima con fiammate di indicibile dolcezza. Poi, dice lo stesso Gregorio, nel cuore divenuto cosciente, la preghiera « opera come una luce di buon odore ». Non si tratta tanto di estasi e di visioni: le esaltazioni mistiche dei principianti devono essere rapidamente superate, poiché potrebbero essere fonte di compiacenza e di orgoglio. Il Signore allora si ritira perché l’uomo conosca l’ultimo spogliamento, partendo dal quale verrà deificato, ma per pura grazia.

I grandi spirituali chiedono di diffidare delle visioni, perché Satana può travestirsi in angelo di luce. La liturgia, la salmodia, le icone soprattutto, tendono a introdurre l’asceta, al di là di ogni fantasma, in una sobria e realissima comunione. I criteri del cammino giusto sono la pace, la dolcezza, l’umiltà, e non l’esaltazione che lascia l’anima turbata; soprattutto la capacità di amare i propri nemici, secondo il precetto evangelico. Certo, i più grandi - i più umili – quelli che hanno raggiunto lo stadio della preghiera ininterrotta hanno, per di più, attraversato i mondi angelici, penetrando fino al trono di Dio (il cuore infiammato si identifica qui con il carro di Elia, come nella mistica ebraica), hanno conosciuto i fondamenti del mondo creato e gli esiti finali della storia, sono stati visitati dalla Madre di Dio e dai santi. Ma il risultato normale di questa ascesi è, partendo dal cuore, la trasfigurazione del quotidiano con una luce che è anche un fuoco e che non è un’emanazione anonima, ma l’irradiazione stessa del Risorto, la presenza se­greta dello Spirito, la trasformazione della trascendenza inaccessibile in paternità amorevole. La visione, l’audizione, l’intelligenza, l’amore, tutto si raccoglie in un’unica sensazione di Dio: tutto è luce, ma questa luce è increata, ossia rimanda a una sorgente insieme inaccessibile per essenza e partecipabile per grazia. Tutto è luce, ma questa luce è il contenuto di un incontro, di una comunione.

L’uomo entra allora in un ritmo inesauribile di in-stasi/ex-stasi. S. Gregorio di Nissa, partendo da un participio paolino (« teso verso ») ha formato qui il termine di epectasi , dove epi designa l’in-stasi, l’infinita prossimità di Dio che tutto intero si rende partecipabile, mentre ek designa l’e-stasi, la tensione amante verso questo Dio la cui distanza non si cancella, « quello che si cerca sempre » nell’in-conoscenza della fede, poiché tutto intero egli resta inaccessibile.

Questa distanza incessantemente colmata in Cristo, e incessantemente riaperta verso l’abisso del Padre, questa distanza-partecipazione costituisce il luogo stesso dello Spirito; si iscrive e ci iscrive nel mistero della Trinità. L’anima in via di deificazione, il cuore cosciente che s’infiamma e s’invola con le ali della colomba, diventa, per riprendere un’espressione di Jean Daniélou, un universo spirituale in espansione. E ciò che è vero della relazione con Dio, lo diventa della relazione con il prossimo, come dello stupore davanti alla cosa più umile. L’ascesi neptica ci fa definitivamente comprendere che il cristianesimo non è una ideologia, che non è un sapere assoluto, ma è la non-conoscenza amante della fede e della diaconia. Più conosco Dio, e più egli mi diventa meravigliosamente sconosciuto; più conosco il prossimo, e più lo incontro con lo stupore della prima volta. Più conosco la creazione di Dio, e più sono colto dal suo mistero (vi sarebbe qui, io credo, il germe di una nuova logica scientifica, che mostri che cos’è l’irriducibilità del mistero che suscita il dinamismo della ricerca).

La vita eterna comincia così fin da quaggiù. Si va « di inizio in inizio, attraverso inizi che non hanno mai fine », come dice Gregorio di Nissa. Non si tratta di « evadere dal tempo », come nella mistica dell’India, o di abolire il tempo come nel nirvana buddistico, ma di accedere a una temporalità propriamente ecclesiale, calcedonese nella quale il tempo e l’eternità si uniscono « senza separazione e senza confusione ». Il ritmo di questa temporalità è quello della morte-risurrezione, della croce pasquale. Esso introduce nelle situazioni di morte della nostra esistenza – fino all’estrema agonia – l’esperienza che si concentra in quella del martire. I martiri, nella storia della Chiesa, sono stati i primi venerati come santi. Un martire non è semplicemente, come troppo spesso si è creduto, qualcuno che dà la vita per le sue idee: un martire è colui che, nell’orrore della tortura e della morte, si abbandona umilmente al Crocifisso-Risorto, e così si trova ripieno della gioia della risurrezione. « Macinato dal dente delle fiere », diventa « pane eucaristico », come diceva Ignazio il Teoforo. Ugualmente, il monaco, nella tradizione antica, è insieme « stauroforo » e « pneumatofòro », portatore della croce e portatore dello Spirito, colui che « dà il suo sangue e riceve lo Spirito », e con ciò stesso « un risuscitato », capace di conoscere fin nel suo corpo una pienezza ineffabile.

Questa temporalità fa affiorare grandi falde di pace e di luce nella densità degli esseri e delle cose, nella monotonia dei compiti quotidiani. L’instasi-estasi nell’incontro con l’altro diventa servizio, amore attivo e inventivo. Questa temporalità, infine, ha sapore di silenzio. Non il cattivo silenzio del vuoto e della disperazione, il silenzio gelido della solitudine, ma il silenzio pieno, il silenzio divino, quel « linguaggio del mondo futuro », come diceva Isacco il Siro. L’invocazione deve allora aprirsi sul silenzio. All’inizio con brevi momenti di silenzio intercalati tra gli appelli. Poi in una specie di aleggiamento interiore, nell’azzurro d’un cuore cosciente, secondo una penetrazione dell’interiorità “pneumatica” del Nome di Gesù. Poiché il silenzio riposa nel Nome come lo Spirito, da tutta l’eternità, riposa nel Verbo, come costituisce l’unzione messianica, cristica, del Verbo incarnato. E quando lo Spirito è presente, non bisogna più pregare, ma tacere in lui, per riprendere, ad esempio, l’insegnamento di S. Serafino di Sarov. Si dice sempre che la mistica liturgica, nella Chiesa ortodossa, è al servizio della Parola; ma è anche al servizio del silenzio: apre la parola su un interno di silenzio. La stessa cosa avviene per il gregoriano.

La “preghiera di Gesù” fa del cuore di ciascuno una cella monastica, dove egli è « solo con il Solo », nel silenzio. L’ascesi neptica insegna a tacere. Ma il silenzio cristiano è inseparabile da una parola rinnovata. A un dato momento, il silenzioso, l’esicasta, riceve il carisma della parola di vita: che va dal cuore al cuore, parola-seme.

Uno degli affreschi più noti dell’Athos rappresenta un monaco crocifisso, ma che emana fiamme. Quelli che sono come lui, sono “uomini apostolici”, che parlano di ciò che esperimentano, e la cui parola è piena di tutta la potenza dello Spirito. Gli altri – ed è quello che io sto tentando – si contentano, facendosi piccoli, di portare la loro testimonianza, e cercano di essere, con la parola o con la penna, ciò che un pittore di icone è con il pennello.

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