sabato 13 luglio 2013

quanta disciplina si nasconde con lieve grazia dietro a questi segni così precisi e imperativi

Per poco che si conosca la musica, quella che si legge su di uno spartito non quella prodotto di assemblaggio fra rumori, balza evidente all’occhio quanto sia importante e determinante la pausa. Emessa una nota, solo la pausa fra l’antecedente e la successiva consente di entrare nel ritmo e di conoscerne la melodia. Ed il gioco è tutto qui a ben pensarci. Provate a canticchiare un’arietta anche semplice semplice, quotidiana e feriale, ben conosciuta, continuate l’esperimento sottraendo le pause… ne esce un obbrobrio, intraducibile in suoni coordinati. Io prediligo alcuni brani che mai mi stancherei di ascoltare, proprio perché penetrano il tessuto del mio esistere e si sono intramati con il mio sentire. Uno di questi è l’Agnus Dei della Messa dell’Incoronazione di Mozart, quella diretta da von Karajan nella Basilica di S. Pietro durante la Messa celebrata da Giovanni Paolo II. Mozart compose il brano in ricordo della sua Prima Comunione e dalla composta serenità dell’implorazione traspare tutto l’animo del ragazzo mentre riceveva il Corpo del Signore Gesù. La soavità del pizzicato degli archi sostiene l’assolo della voce fino al crescendo della triplice invocazione che conduce infine alla grande pace che può scaturire soltanto dallo stesso Salvatore. Il soprano volteggia e si innalza ma sosta, si ferma, produce pause e le rispetta con tutta l’orchestra che le insegue, le sollecita, le prepara, le incastona così da farle risplendere. Collocarsi in queste pause apre all’incontro e connota il volto della persona che si lascia aprire al misterioso e inafferrabile volto di Gesù. Apprendere l’arte delle pause è insegnamento vivo e trasmesso dalla nostra tradizione Carmelo, lo “stare davanti al Volto di Dio” di Elia non è altro che una pausa, una sorta di rottura fra un prima e un dopo, ma afferrata e resa gravida non un nulla che cade, precipita e travolge. Pausa umana, promanante da un cuore innalzato a Dio da un coacervo di ombre, di sconclusionatezze che, forse, fino in fondo solo Lui conosce. Come lo stesso Mozart, persona tutt’altro che irrepresensibile e scevra da dissonanze, eppure capace di trasfondere il suo sentire di peccatore salvato. Come lo stesso direttore orante da una piattaforma analoga a quella di Mozart. Buon per me e buon per tutti noi! Se osservate l’esecuzione di von Karajan noterete che sono i gesti, contenuti ma frementi, delle mani del direttore a determinare pause e attacchi, sfumature. Quanto esercizio, quanta disciplina si nasconde con lieve grazia dietro a questi segni così precisi e imperativi e tuttavia dolcissimi? Quale coordinamento fra la solista, cui si aggiungono, viva via, le voci degli altri solisti e tutto l’insieme dell’orchestra. Un corpo vivo e orante, come dovremmo diventare tutti noi: voce solista, voci soliste e grande insieme, tutti armonizzati nella lode a Dio e dell’uomo e della donna sue creature. La mia impressione è che l’estate spesso sia vissuta senza pause. Di per sé dovrebbe essere il momento ideale e denominata proprio la grande pausa estiva, di fatto si risolve, ahimè, in una rincorsa che sfianca e non nutre. Rompere con il costume corrente e fermarsi potrebbe essere un’iniziativa estiva davvero rivoluzionaria e costruttiva per la storia delle persone e di quella persona che siamo noi stessi. Sia il mare ma non la spiaggia affollata e rumorosa, quanto piuttosto una baia solitaria da poter far diventare silente; sia la montagna non quella iperorganizzata e costretta entro perimetri consumistici, quanto quella dei semplici sentieri che sboccano una radura. Pause naturali che portano alle pause interiori. Per noi il direttore è lo Spirito Santo che attende soltanto l’attenzione e la vigilanza per poter operare pienamente. Quale momento più adatto dell’estate, di quelle ferie sospirate nel corso dell’anno lavorativo? Solo questa è la strada per crescere come persone oranti in ascolto vigile. Pausa nome altro di silenzio. SUOR CRISTIANA DOBNER (Il Castello dell'anima, 30.06.07)

venerdì 12 luglio 2013

L’ascesi neptica insegna a tacere. Ma il silenzio cristiano è inseparabile da una parola rinnovata. A un dato momento, il silenzioso, l’esicasta, riceve il carisma della parola di vita: che va dal cuore al cuore, parola-seme.


Tappe ascetiche e aspetti pratici della Preghiera di Gesù
 O. Clement, J. Serr, LA PREGHIERA DEL CUORE, ed.Ancora

Simultaneamente, ma a poco a poco,
interviene la terza tappa,
quella della partecipazione alla luce increata nella comunione con il Signore Gesù,
comunione trinitaria, come abbiamo detto;
perché nell’interiorità dello Spirito ci conduce verso « il seno del Padre ».
Gregorio il Sinaita dice che la preghiera comincia a sgorgare nel cuore
come le scintille da un fuoco giulivo:
la luce increata sì manifesta dapprima con fiammate di indicibile dolcezza.
Poi, dice lo stesso Gregorio, nel cuore divenuto cosciente,
la preghiera « opera come una luce di buon odore ».
Non si tratta tanto di estasi e di visioni:
le esaltazioni mistiche dei principianti devono essere rapidamente superate,
poiché potrebbero essere fonte di compiacenza e di orgoglio.
Il Signore allora si ritira perché l’uomo conosca l’ultimo spogliamento,
partendo dal quale verrà deificato, ma per pura grazia.

I grandi spirituali chiedono di diffidare delle visioni,
perché Satana può travestirsi in angelo di luce.
La liturgia, la salmodia, le icone soprattutto,
tendono a introdurre l’asceta, al di là di ogni fantasma,
in una sobria e realissima comunione.
I criteri del cammino giusto
sono la pace, la dolcezza, l’umiltà, e
non l’esaltazione che lascia l’anima turbata;
soprattutto la capacità di amare i propri nemici,
secondo il precetto evangelico.
Certo, i più grandi
- i più umili –
quelli che hanno raggiunto lo stadio della preghiera ininterrotta
hanno, per di più, attraversato i mondi angelici,
penetrando fino al trono di Dio
(il cuore infiammato si identifica qui con il carro di Elia, come nella mistica ebraica),
hanno conosciuto i fondamenti del mondo creato e gli esiti finali della storia,
sono stati visitati dalla Madre di Dio e dai santi.
Ma il risultato normale di questa ascesi è, partendo dal cuore,
la trasfigurazione del quotidiano con una luce
che è anche un fuoco e che non è un’emanazione anonima,
ma l’irradiazione stessa del Risorto,
la presenza se­greta dello Spirito,
la trasformazione della trascendenza inaccessibile in paternità amorevole.
La visione, l’audizione, l’intelligenza, l’amore,
tutto si raccoglie in un’unica sensazione di Dio:
tutto è luce,
ma questa luce è increata,
ossia rimanda a una sorgente insieme inaccessibile per essenza e partecipabile per grazia.
Tutto è luce, ma questa luce è il contenuto di un incontro, di una comunione.

L’uomo entra allora
in un ritmo inesauribile di in-stasi/ex-stasi.
S. Gregorio di Nissa, partendo da un participio paolino (« teso verso »)
ha formato qui il termine di epectasi , dove epi designa l’in-stasi,
l’infinita prossimità di Dio che tutto intero si rende partecipabile,
mentre ek designa l’e-stasi,
la tensione amante verso questo Dio la cui distanza non si cancella,
« quello che si cerca sempre » nell’in-conoscenza della fede,
poiché tutto intero egli resta inaccessibile.

Questa distanza incessantemente colmata in Cristo,
e incessantemente riaperta verso l’abisso del Padre,
questa distanza-partecipazione costituisce il luogo stesso dello Spirito;
si iscrive e ci iscrive nel mistero della Trinità.
L’anima in via di deificazione,
il cuore cosciente che s’infiamma e s’invola con le ali della colomba,
diventa,
per riprendere un’espressione di Jean Daniélou,
un universo spirituale in espansione.
E ciò che è vero della relazione con Dio,
lo diventa della relazione con il prossimo,
come dello stupore davanti alla cosa più umile.
L’ascesi neptica ci fa definitivamente comprendere
che il cristianesimo non è una ideologia,
che non è un sapere assoluto,
ma è la non-conoscenza amante della fede e della diaconia.
Più conosco Dio, e più egli mi diventa meravigliosamente sconosciuto;
più conosco il prossimo, e più lo incontro con lo stupore della prima volta.
Più conosco la creazione di Dio,
e più sono colto dal suo mistero
(vi sarebbe qui, io credo, il germe di una nuova logica scientifica,
che mostri che cos’è l’irriducibilità del mistero
che suscita il dinamismo della ricerca).

La vita eterna comincia così fin da quaggiù.
Si va « di inizio in inizio, attraverso inizi che non hanno mai fine »,
come dice Gregorio di Nissa.
Non si tratta di « evadere dal tempo »,
come nella mistica dell’India,
o di abolire il tempo
come nel nirvana buddistico,
ma di accedere a una temporalità propriamente ecclesiale,
calcedonese nella quale il tempo e l’eternità si uniscono « senza separazione e senza confusione ».
Il ritmo di questa temporalità è quello della morte-risurrezione, della croce pasquale.
Esso introduce nelle situazioni di morte della nostra esistenza
– fino all’estrema agonia –
l’esperienza che si concentra in quella del martire.
I martiri, nella storia della Chiesa, sono stati i primi venerati come santi.
Un martire non è semplicemente,
come troppo spesso si è creduto,
qualcuno che dà la vita per le sue idee:
un martire è colui che, nell’orrore della tortura e della morte,
si abbandona umilmente al Crocifisso-Risorto,
e così si trova ripieno della gioia della risurrezione.
« Macinato dal dente delle fiere », diventa « pane eucaristico »,
come diceva Ignazio il Teoforo.
Ugualmente, il monaco, nella tradizione antica,
è insieme « stauroforo » e « pneumatofòro »,
portatore della croce e portatore dello Spirito,
colui che « dà il suo sangue e riceve lo Spirito »,
e con ciò stesso « un risuscitato »,
capace di conoscere fin nel suo corpo una pienezza ineffabile.

Questa temporalità fa affiorare grandi falde di pace e di luce nella densità degli esseri e delle cose, nella monotonia dei compiti quotidiani.
L’instasi-estasi nell’incontro con l’altro diventa servizio, amore attivo e inventivo.
Questa temporalità, infine, ha sapore di silenzio.
Non il cattivo silenzio del vuoto e della disperazione,
il silenzio gelido della solitudine,
ma il silenzio pieno,
il silenzio divino,
quel « linguaggio del mondo futuro », come diceva Isacco il Siro.
L’invocazione deve allora aprirsi sul silenzio.
All’inizio con brevi momenti di silenzio intercalati tra gli appelli.
Poi in una specie di aleggiamento interiore,
nell’azzurro d’un cuore cosciente,
secondo una penetrazione dell’interiorità “pneumatica” del Nome di Gesù.
Poiché il silenzio riposa nel Nome come lo Spirito,
da tutta l’eternità,
riposa nel Verbo,
come costituisce l’unzione messianica, cristica, del Verbo incarnato.
E quando lo Spirito è presente,
non bisogna più pregare,
ma tacere in lui, per riprendere, ad esempio, l’insegnamento di S. Serafino di Sarov.
Si dice sempre che la mistica litn urgica, nella Chiesa ortodossa, è al servizio della Parola; ma è anche al servizio del silenzio: apre la parola su un interno di silenzio. La stessa cosa avviene per il gregoriano.

La “preghiera di Gesù” fa del cuore di ciascuno una cella monastica,
dove egli è « solo con il Solo », nel silenzio.
L’ascesi neptica insegna a tacere.
Ma il silenzio cristiano è inseparabile da una parola rinnovata.
A un dato momento, il silenzioso, l’esicasta, riceve il carisma della parola di vita:
che va dal cuore al cuore, parola-seme.

Uno degli affreschi più noti dell’Athos rappresenta un monaco crocifisso,
ma che emana fiamme.
Quelli che sono come lui, sono “uomini apostolici”,
che parlano di ciò che esperimentano,
e la cui parola è piena di tutta la potenza dello Spirito.
Gli altri – ed è quello che io sto tentando – si contentano,
facendosi piccoli, di portare la loro testimonianza,
e cercano di essere, con la parola o con la penna,
ciò che un pittore di icone è con il pennello.

giovedì 11 luglio 2013

Più l’uomo si pacifica e si interiorizza, più deve pregare nell’umiltà e nella fiducia, in spirito « di infanzia », teso verso un incontro, in Cristo, con Dio Padre, « abba, Padre », come se pregasse per la prima volta.


Tappe ascetiche e aspetti pratici della Preghiera di Gesù
 O. Clement, J. Serr, LA PREGHIERA DEL CUORE, ed.Ancora

Quando il futuro S. Doroteo entrò in monastero,
voleva subito praticare le virtù più ardue e la preghiera perpetua.
Il suo padre spirituale,
il vegliardo recluso Barsanufio,
gli chiese invece di costruire un piccolo ospedale e dedicarsi ai malati.
Più tardi Doroteo si lamentava dell’ossessione carnale,
e Bar­anufio, in un “contratto” rimasto famoso nella storia della paternità spirituale,
gli chiese di non preoccuparsene, poiché egli prendeva tutto su di sé;
per contro, Doroteo si impegnava, su punti precisi,
 a un atteggiamento di umiltà, di fiducia, di carità.
Egli partiva dal centro,
lasciava irradiare il sole interiore:
a poco a poco, le sue tentazioni scomparvero da sole.
La “preghiera di Gesù” può aiutarci assai in questa ricostruzione di una base vitale sotto il sole del cuore.

I vecchi monaci dicono che
non bisogna temere i momenti di « pleroforia », di pienezza sperimentata nel corpo stesso;
essi insegnano, nella prospettiva della risurrezione,
un uso non passionale della gioia di essere;
chiedono di « circoscrivere l’incorporeo nel corporale »,
fino a vivere con gratitudine una umile e grave sensazione.
Camminare, respirare, nutrirsi, toccare la corteccia dell’albero, tutto può diventare celebrazione.
« Il nome di Gesù diventa una specie di chiave che apre il mondo,
uno strumento di offerta segreta,
una apposizione del sigillo divino su tutto quello che esiste.
L’invocazione del nome di Gesù è un metodo di trasfigurazione dell’universo ».

E’ bene che un esercizio di distensione,
di presa di coscienza del corpo,
termini non con una euforia immanente
– o con il sonno –
ma con l’invocazione.
Più l’uomo si pacifica e si interiorizza,
più deve pregare nell’umiltà e nella fiducia, in spirito « di infanzia »,
teso verso un incontro,
in Cristo, con Dio Padre, « abba, Padre »,
come se pregasse per la prima volta.
Solo questo atteggiamento può permettere
di utilizzare discretamente certe tecniche asiatiche di concentrazione,
tanto di moda oggi.

E’ bene che l’invocazione sia presente nell’amicizia e nell’amore. Quanto alla sua irradiazione necessaria nelle relazioni sociali e nei ritmi di lavoro, potrebbe essere la misura, il criterio di un’azione perseverante e creatrice dei cristiani nella società.


mercoledì 10 luglio 2013

La metanoia nel senso pieno del termine, è appunto questo: rovesciare il proprio cuo­re, lasciare che il Signore lo riempia di luce.


Tappe ascetiche e aspetti pratici della Preghiera di Gesù
 O. Clement, J. Serr, LA PREGHIERA DEL CUORE, ed.Ancora

La preghiera deve essere detta « con tutto il pro­prio amore »  e la propria intelligenza,
facendo attenzione al senso delle parole;
essa elimina la polvere delle immagini mentali che offusca lo « spec­chio » del cuore.
Il cuore così purificato « vede se stesso interamente luminoso »,
« si eleva nell’amore e nel desiderio di Dio »,
si scopre ripieno della « luce taborica » che irradia da Cristo trasfi­gurato,
diventa quel placido « specchio di Dio » nel quale si imprime la « fotofania » di Cristo
e, in essa, la verità degli esseri e delle cose.

Bisogna tener conto tuttavia del fatto
che l’oc­cidentale di oggi è assai diverso
dal tipo di uomo per il quale sono stati scritti questi testi.
L’uomo delle antiche civiltà disponeva di una solida base vitale:
era radicato nel silenzio e nella lentezza;
conosceva la fatica profonda
che, a suo modo, purifica e rinnova.
Era vicino agli esseri e alle cose.
L’uomo di oggi, l’uomo della civiltà urbana e industriale,
vive assai più alla superficie di se stesso,
frastornato da rumori e da immagini fuggitive;
ha i nervi tesi
ma rara­mente conosce la grande e benefica fatica corporale.
E’ solo nella folla,
ha perso il contatto con le cose,
con le vere realtà materiali.
Si stordisce di cibo e di impressioni.
Per rompere il guscio dell’artificiale e del meccanico,
non gli resta che l’erotismo;
ma anche questo diventa artificiale e meccanico.

Bisogna dunque trascrivere qui alcune righe per­tinenti di Paul Evdokimov:
« Nelle condizioni della vita moderna,
sotto il peso dell’affaticamento e dell’usura nervosa,
la sensibilità cambia.
La medicina protegge e prolunga la vita,
ma nello stesso tempo diminuisce la resistenza alla sofferenza e alle pri­vazioni.
L’ascesi cristiana è solo un metodo al ser­vizio della vita,
perciò cercherà di adattarsi ai bisogni nuovi.
La Tebaide eroica imponeva digiuni estremi e costrizioni assai dure:
il combattimento di oggi si sposta.
L’uomo non ha bisogno di un dolorismo supplementare
che rischierebbe di spezzarlo inutilmente:
la mortificazione consisterà nel liberarsi da ogni bisogno di doping:
velocità, rumore, eccitanti, inebrianti di ogni specie.
L’ascesi sarà piuttosto
il riposo imposto,
la disciplina di calma e di silenzio, periodico e regolare,
nel quale l’uomo ritrova la fa­coltà di arrestarsi
per la preghiera e per la contem­plazione,
anche in mezzo a tutti i rumori del mondo.
Il digiuno sarà la rinuncia al superfluo,
la condivi­sione con i poveri,
un equilibrio sorridente ».

In questo contesto, alcuni dei più esperimentati spirituali ortodossi di oggi sconsigliano
di « far di­scendere » la preghiera nel cuore in una maniera volontarista.
Si rischia così di turbare il proprio equi­librio nervoso e di perdere irrimediabilmente la pos­sibilità di « trovare il proprio cuore ».
Meglio con­tentarsi di utilizzare il ritmo della respirazione e di pregare,
quando si può, « con tutto il cuore » nel senso attuale dell’espressione.
Un giorno, forse, Dio con la sua grazia farà discendere la preghiera nel cuore:
ma bisogna affidarsi totalmente a lui, non irrigidirsi, non volere.
L’uomo d’Occidente, dice Hei­degger,
è caratterizzato da una « volontà di volontà ».
Egli deve innanzitutto imparare ad abbandonarsi,
e questo è proprio il senso profondo della “preghiera di Gesù”.

Nicola Cabasilas, che scriveva per dei laici, per gli abitanti delle grandi città,
ci è su questo punto di grande aiuto.
Non bisogna, dice, voler amare Dio,
ma sapere umilmente che egli ci ama.
Non bisogna voler conservare il proprio cuore,
ma affidarlo al sangue eucaristico.
Bisogna partire dal centro, e centro è Cristo, cuore della Chiesa,
alter ego di ogni fedele.
L’amore risponde all’amore,
le forze del cuore irradiato dalla presenza del Signore si liberano.
Quel che occorre non è tanto rompere la corteccia dell’esi­stenza
per trovare il luogo del cuore,
quanto lasciar irradiare il sole del cuore;
e questa irradiazione
modificherà a poco a poco, dal di dentro, la corteccia dell’esistenza.

Si sa bene, oggi,
che un difetto combattuto alla superficie della psiche
si nasconde, ma non viene guarito.
Si diventa continenti, ma si amano i cibi zuccherati e si hanno suscettibilità da zitella.
Si trion­fa di ogni vizio apparente,
ma si succhia il sangue alle anime col pretesto di guidarle.
Cristo, nel Vangelo, parte sempre dal centro,
si rivolge direttamente alla persona, provoca il cambiamento del cuore.
La metanoia nel senso pieno del termine, è appunto questo:
rovesciare il proprio cuo­re,
lasciare che il Signore lo riempia di luce.
L’ascesi, poi, consisterà nell’eliminare a poco a poco gli osta­coli che fanno schermo alla luce.


martedì 9 luglio 2013

Viene il giorno nel quale lo spirito, alle­nato, ha fatto progressi, e riceve potenza dallo Spi­rito per pregare totalmente e intensamente: allora non ha più bisogno della parola.


Tappe ascetiche e aspetti pratici della Preghiera di Gesù
 O. Clement, J. Serr, LA PREGHIERA DEL CUORE, ed.Ancora

La « preghiera di Gesù »
può assumere delle forme “tecniche”, psico-somatiche,
per favorire l’unificazione dello spirito e del cuore.
Indicazioni molto precise si trovano in tutti i testi del XIII e XIV secolo,
quando si ebbe nel mondo bizantino un potente rinnovamento dell’esicasmo.
Il ricorso allo scritto prova che i maestri erano scomparsi, o quasi,
e anche che l’esicasmo non è un esoterismo
(con le sue linee ininterrotte di maestri e di discepoli, come il “sufismo”)
ma la realizzazione cosciente del mistero cristiano,
sempre suscettibile di rinascere dalla vita sacramentale
e dalla penetrazione spirituale delle Scritture.
Nil Sorskij, nel XVI secolo, lo starec Silvano nel XX, rinviano il discepolo,
se non trova un maestro,
alla meditazione della Bibbia e dei Padri,
a una profonda vita sacramentale,
al rispetto dei « comandamenti di Cristo »,
infine ai consigli di ogni confessore di buona volontà,
anche se non comprende niente del “metodo”;
se ci si affida a lui nella fiducia e nell’umiltà,
Dio stesso ci guiderà per mezzo suo.

Alla fine del XIII secolo, e nel corso del XIV,
in un’epoca assai turbata,
molte cose sono state così affidate allo scritto:
abbiamo in tal modo i testi di Niceforo il Solitario
(che costituiscono una piccola Filocalia nella grande),
dell’autore anonimo del “Metodo”,
di S. Gregorio Palamas, di S. Gregorio il Sinaita, di Callisto e di Ignazio Xantopuloi.
La raccolta di estratti riguardanti
le tecniche della preghiera è stata redatta da J. Gouillard
che l’ha completata con alcune indicazioni di S. Nicodemo Agiorita.

All’alba, e soprattutto al calar del sole, dicono questi testi,
è importante, per pregare,
ritirarsi « in una cella tranquilla e oscura »,
« appartata in un angolo ».
Mentre per i principianti la “preghiera di Gesù »
si dice in piedi, con o senza prosternazioni,
qui si raccomanda di sedersi su un basso sgabello e
di inchinarsi comprimendo il petto,
sia semplicemente coll’appoggiare il mento su di esso,
sia curvandosi al massimo,
in un movimento “circolare” del corpo,
tendendo il capo verso le ginocchia,
non senza un « dolore del petto, delle spalle e della nuca ».
Se ci si limita a curvarsi appoggiando mento o barba sul petto,
« a chiudere il cerchio sarà lo sguardo
che si fisserà sul petto stesso,
o sul centro del ventre,
ossia sull’ombelico ».

Queste posizioni hanno un senso nel quale
si esprime la realtà simbolica, o “sacramentale” del corpo.
Esse manifestano,
e perciò assecondano,
la concentrazione di tutto il composto umano sul cuore,
in un movimento che essendo scomodo
(a diffe­renza della facilità sovrana ricercata dallo yoga)
non è di padronanza ma di offerta.
« Così, nota Nicodemo Agiorita,
l’uomo offre a Dio tutta la na­tura sensibile e intellettuale,
di cui egli è il legame e la sintesi ».
Gli esicasti si riferiscono a questo riguardo
al « movimento circolare dell’anima » di cui parla Dionigi nei Nomi divini:
« Il movimento cir­colare dell’anima è il suo entrare in se stessa
mediante il distacco dagli oggetti esteriori e
la mobilitazione unificante delle sue potenze »

Allo stesso modo, la fissazione dello sguardo sull’ombelico,
ossia sul centro vitale dell’uomo
(qui si imporrebbe tutto uno studio per sapere se si può proporre un raffronto con lo hara giapponese),
non è un semplice artificio di concentrazione,
ma si­gnifica che tutta la forza vitale dell’uomo,
trasmu­tandosi nel « cuore cosciente »,
deve anch’essa farsi offerta.
Dio può così fare sua, dice S. Gregorio Palamas,
la « parte concupiscibile » dell’anima,
può « ricondurre il desiderio alla sua origine »,
cioè all’eros per Dio di cui parlano così profondamente S. Giovanni Climaco e
l’Apocalisse, che lancia il suo appello all’ « uomo del desiderio ».

Così il corpo stesso aderisce a Dio « con la forza di questo desiderio ».
« Coloro che si danno ai piaceri sensibili della corruzione
esauriscono nella carne
tutta la potenza del desiderio della loro anima,
e diventano essi stessi interamente carne.
Lo Spirito non può dimorare in loro.
Al contrario, in quelli che elevano il loro spirito a Dio
e stabiliscono la loro anima nell’amore di Dio,
la carne trasformata partecipa allo slancio dello spirito e
si unisce a lui nella comu­nione divina.
Essa stessa diventa dominio della casa di Dio ».
La trasfigurazione dell’eros nell’agape
è una costante di questa tradizione:
« Che l’eros fisico sia per te un modello nel tuo desiderio di Dio »,
scriveva S. Giovanni Climaco, che soggiun­geva:
« Beato colui che ha una passione non meno violenta per Dio
di quella dell’amante per la sua fidanzata ».

In questa posizione,
è necessario « raccogliere il proprio spirito » e
« farlo discendere », « spingerlo » nel cuore,
utilizzando il movimento dell’inspirazio­ne,
curvarsi del corpo permette di « comprimere »  la respirazione:
« trattiene il respiro » il più a lungo possibile,
pronunciando le parole della preghiera.
Poi si emette l’aria « a labbra chiuse ».
Questo all’inizio.
Lo spirito, attratto dalla posizione scomoda del corpo,
« si raccoglie più facilmente »;
il cuore, a disagio per lo sforzo di trattenere il re­spiro,
è più facile « da trovare ».
In seguito, il « ritmo del respiro si fa più lento ».
L’invocazione non è più pronunciata con le labbra,
anche quasi in silenzio,
ma si compie in una maniera puramente interiore.
Viene il giorno nel quale lo spirito, alle­nato,
ha fatto progressi,
e riceve potenza dallo Spi­rito per pregare totalmente e intensamente:
allora non ha più bisogno della parola.

Quando si è « calato » lo spirito nel cuore,
esso non deve avere altra preoccupazione che il grido:
« Signore Gesù Cristo, Figlio di Dio, abbi pietà di me».
La formula usata sarà
– ma senza che il cambiamento sia troppo frequente,
« perché gli al­beri troppo trapiantati non attecchiscono più », ora:
« Signore Gesù Cristo, abbi pietà di me », ora
« Figlio di Dio, abbi pietà di me ».
Quando lo spirituale « avrà progredito nell’amore mediante l’esperienza »
e avrà ottenuto per grazia l’evidenza della misericordia divina,
abbandonerà l’« abbi pietà di me » per concentrarsi sulle parole:
« Signore Gesù Cristo, Figlio di Dio »,
che « dirigono lo spirito immaterialmente verso colui
che esse nominano »
I proficienti” e i “perfetti” si accontenteranno della sola invocazione del Nome di Gesù.


lunedì 8 luglio 2013

l’uomo esce da se stesso e dalla sua natura, per unirsi a Dio, e solo così può pacificare questa natura e riunificarla


Tappe ascetiche e aspetti pratici della Preghiera di Gesù
 O. Clement, J. Serr, LA PREGHIERA DEL CUORE, ed.Ancora


Una unificazione fuori dal centro:
gli aspetti pratici e tecnici della Preghiera di Gesù

Non è giusto separare le due tappe seguenti
– di cui lo stato « metanico » costituisce il fondamento indispensabile –
quella dell’unificazione della coscienza e del cuore,
e quella della trasfigurazione nella luce divina.

L’unificazione, infatti, non è per se stessa;
è estatica l’uomo esce da se stesso e dalla sua natura,
per unirsi a Dio,
e solo così può pacificare questa natura e riunificarla.
L’approfondimento nell’esistenza,
il risveglio progressivo del « cuore cosciente »
nel quale si trasfigurano insieme l’intelligenza
e la forza vitale dell’uomo, l’esperienza simultanea della consostanzialità di tutti gli uomini,
« membra gli uni degli altri » in Cristo,
tutto contribuisce,
nel dinamismo che va dalla fede all’amore attraverso la speranza,
ad attuare a poco a poco una unificazione fuori dal centro.

Fuori dal centro, perché l’uomo si raccoglie nel suo cuore,
che a sua volta, altro non è che il luogo di trasparenza a una luce increata,
cioè la cui sorgente è sempre al di là;
e anche perché l’uomo assume la natura umana riunificata in Cristo nella misura in cui,
per un autotrascendimento personale,
aderisce con tutta la sua fede alla persona di Cristo.
Questa autotrascendenza dell’uomo nella non-conoscenza
risponde misteriosamente alla trascendenza di Dio vivente nella kenosi.
Le energie divine unificate sono il contenuto di un incontro.

domenica 7 luglio 2013

grazie alla memoria di Dio, le lacrime del pentimento diventano lacrime di gratitudine, di meraviglia, di gioia.


Tappe ascetiche e aspetti pratici della Preghiera di Gesù
 O. Clement, J. Serr, LA PREGHIERA DEL CUORE, ed.Ancora

Le lacrime sono anzitutto lacrime di penitenza:
nascono « da una umiltà assai profonda ».
Sono lacrime della memoria della morte,
del peccato compreso in tutta la sua profondità,
nelle sue ramificazioni e nelle sue concatenazioni insospettate.
Ma a poco a poco,
grazie alla memoria di Dio,
le lacrime del pentimento diventano lacrime
di gratitudine,
di meraviglia,
di gioia.
«La fonte delle lacrime dopo il battesimo
è qualcosa di più grande del battesimo »
diceva S. Giovanni Climaco.
« Chi si è rivestito delle lacrime
come di un abito nuziale,
ha conosciuto il beato sorriso dell’anima »:
sorridere attraverso le lacrime, simbolo di risurrezione.
E le lacrime carismatiche,
che scorrono dolcemente,
sono ricomposizione del viso,
hanno già qualcosa di una materialità trasfigurata.

Il canto delle lacrime è già una delle chiavi dell’arte liturgica ortodossa:
già avvertibile nel monachesimo bizantino,
si manifesta particolarmente nell’ortodossia di lingua araba,
dal canto un pò nasalizzato:
è la voce delle lacrime.
Ugualmente, questa « dolente letizia »,
questa « beata afflizione »
è probabilmente una delle chiavi dell’iconografia ortodossa,
il cui capolavoro è forse la « Vergine della tenerezza ».

Tenerezza, katanyxis oumilenie,
altra parola decisiva del vocabolario esicasta.
Le lacrime sono « lacrime di dolcezza ».
Il contrario della sklero-kardia è la « tenerezza divina del cuore ».
Tutta la forza di passione dell’asceta,
disinvestita dalle “passioni”,
crocifissa dalla « memoria della morte »,
purificata e illuminata dalle lacrime carismatiche,
diventa un’immensa tenerezza paterno-materna,
una capacità di accogliere senza giudicare,
cogliendo sempre, al di là del peccato,
il mistero irriducibile della persona.
Carisma della «simpatia»,
che avvolge l’altro d’una gioia di risurrezione,
e gli fa comprendere di essere amato.
Carisma di femminilità spirituale ad immagine di Maria,
« capacità di generare Dio nelle anime devastate »,
come diceva Paul Evdokimov.