Marina Štremfelj
Centro Aletti
Il colloquio spirituale è un’arte che prende le dimensioni e i colori della
sapienza dell’ascolto e della comunicazione
IL COLLOQUIO SPIRITUALE dovrebbe favorire…:
All’interno dell’accompagnamento spirituale,
il colloquio spirituale rappresenta il luogo privilegiato
per la vera conoscenza di Dio e dell’uomo stesso,
nel quale si dischiude di nuovo la possibilità di
sperimentare
una relazione sana, autentica,
dove ci sentiamo integralmente accolti, riconosciuti,
considerati ed aiutati ad uscire da se stessi,
affinché non viviamo più per noi stessi,
ma per Colui
che è morto e risorto per noi.
Dunque il padre spirituale è colui
che aiuta e favorisce l’incontro
esistenziale tra l’uomo e Dio nelle diverse dimensioni spirituali.
1. Quanto più il colloquio spirituale favorisce la totalità è l’integrità della persona, tanto più
questa sta diventando spirituale. Ogni persona è creata ad immagine di Dio, non solo in una
sua particella. Tutto vi è incluso. “Non è mai possibile separare da una parte solo il corporeo e
dall’altra solo lo spirituale. Entrambi si compenetrano, proprio nella reciproca distinzione… la
corporeità è un’immagine dell’uomo, ma l’uomo è al tempo stesso più di quanto la sua
corporeità lasci trasparire… si coglie l’uomo nel suo essere creatura di fronte a Dio, nel suo
essere figlio di Dio. E là – solo là – si fa chiaramente visibile lo spirituale.”
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Dal punto di vista del mondo, il colloquio spirituale può sembrare una cosa ideale e astratta. Si
rischia di dire che la persona diminuisce e non conta niente. Ma si deve far capire al discepolo
che il colloquio spirituale favorisce l’integrità non solo delle cose sacrosante che lo fanno
diventare “devoto”, ma soprattutto aiuta ad integrare anche i momenti di vita spezzati, rotti,
vissuti male, da pagani. Anche questo fa parte della totalità della persona, anche la sua vita
passata con momenti brutti e belli, difficili e facili, peccaminosi e amorevoli, tutti
Il colloquio spirituale dovrebbe favorire l’accettazione di tutta la storia della persona, trovando
il valore della storia, malgrado il fatto che a certe esperienze si è arrivati, purtroppo,
attraverso il peccato.
Se il colloquio spirituale non favorisce questo, porta automaticamente ad una doppia vita.
L’integrità viene fatta quindi grazie alla Parola, grazie alla parte verginale della persona, grazie
alla parte ‘mariana’ delle persona, l’unica capace di dire di sì e di accogliere la luce, la vita
nuova. Da questa convinzione potrà essere messa anche nella mangiatoia, nella parte
peccaminosa, disintegrata della persona.
Tramite l’aiuto spirituale, la persona comincia quindi ad intravedere tutta la sua vita spezzata,
raccolta in un immenso, caldo cuore. Comincia a intravedere anche una sua nuova immagine,
vista da Dio nell’insieme, nell’integrità, realtà tipica della mente illuminata dall’amore. E cambiano
la mentalità, il comportamento, le abitudini, perché si scopre di essere amati e la realtà di vita
tutta intera viene assunta da una Persona, il Dio-Padre-Amore che sana, lava, cura, guarisce e
tutto porta ad una trasfigurazione nella risurrezione. E’ davvero importante favorire l’accettazione
di se stessi per trovare la pace, affinché ci sentiamo figli di Dio – dono di Dio, e per questo di
grande valore. E’ importante accettare la storia passata con tutto ciò che comporta, perché
tutto concorre al bene per coloro che amano Dio (cf Rm 8). Chi di noi non ha vissuto nella vita
passata qualche momento in cui era terra screpolata, in cui le ossa si sono rotte? E’ proprio il
colloquio spirituale che può far rivivere queste ossa dimenticate favorendo la Luce che illumina,
riscalda e ammorbidisce e bagna di rugiada la terra screpolata.
2. Il colloquio spirituale dovrebbe favorire, prima di tutto l’apertura del cuore, l’ascolto
reciproco e la disponibilità interiore come atteggiamento di fondo. Ed è questo che aiuta a
sensibilizzare nella persona l’apertura dell’orecchio interiore per essere capace di riconoscere e
comprendere la voce di Dio nel proprio cuore. Possiamo fare il riferimento alle parole di p.
Rupnik, che parla da un artista mosaicista: “bisogna ascoltare la pietra, sentirla e vedere dove
essa suggerisce di aprirla, non si deve colpire con violenza non si deve imporre la nostra
volontà sulla pietra dove noi vogliamo che si apra perché così la pietra si chiude come un
riccio, ma se la apri lì dove lei suggerisce allora rimarrai stupito della meraviglia dei colori che
nasconde dentro, cristallini e allora prendi un’altra, una terza, una quarta e poi li metti insieme
e nasce un mosaico.”
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Che significa? L’ascolto dovrebbe favorire l’apertura interiore. Per questo l’accompagnatore
dovrebbe all’inizio sottomettersi alla persona, perché si riveli di sua libera scelta. Bisogna
lasciare libera la persona di parlare, non la possiamo fermare, né bloccare, né ostacolare, ma
lasciarla aprire.
Nello stesso momento la guida, mentre ascolta, sta sensibilizzando anche l’orecchio della
persona accompagnata, perché questa, mentre parla, automaticamente ascolta se stessa e
diventa sempre più capace di sentire e di capire cosa sta dicendo. Può capitare molte volte che
la persona, dopo aver parlato, facendole la domanda: “ma ti sei sentita?”, risponda: “Sì, ma
solo adesso che mi sono espressa, mi sono resa conto di ciò che penso e …”. In questo
contesto, potrebbe essere molto utile la ripresa sintetica dell’accompagnatore, dopo aver
ascoltato la persona con le parole: “se ho capito bene, tu volevi dire questo e questo…”, il che
sarebbe un altro modo di favorire nella persona l’ascolto di sé.
E’ molto importante nel colloquio spirituale saper ascoltare, saper individuare e capire da quale
fonte provengano certi pensieri e che cosa si vuole raggiungere.
In questo cammino di ascolto e di apertura subentra la necessità di saper affrontare ed
accettare il progresso che passa per la solitudine, il silenzio e il deserto.
Passando per queste tre cose, si cresce, anche se bisogna passare la logica cristica, pasquale.
Si tratta di prove, ma come la mamma quando partorisce sta male, quando arriva il bambino,
sente una ricompensa talmente grande che, per amore suo, accetta di soffrire.
Allora, la solitudine, il silenzio e il deserto hanno tanti elementi in comune e spesso si vivono in
profondo collegamento. Anche se in un periodo sarà più sottolineato il silenzio, in un altro la
solitudine e nell’altro il deserto, comunque questi momenti si intrecciano prima o poi.
a) LA SOLITUDINE
Per quanto riguarda la solitudine, bisogna saper distinguere la solitudine psicologica dalla
solitudine spirituale. La solitudine psicologica ci isola dagli altri, ci porta alla chiusura ed è
molto pesante o addirittura distruttiva, in quanto spesso impregnata dal pensiero che nessuno
ci vuole bene, nessuno si interessa di noi, per nessuno siamo preziosi. Ecco il vero problema
della solitudine psicologica. Facciamo l’esempio di una suora venuta per un colloquio. Le
chiediamo se vuole dire qualcosa e, dopo 10 minuti di silenzio, dice: “Nessuno mi vuole bene
nella comunità”. La guida replica: “Ma tu qualche volta leggi la Sacra Scrittura?” “Certo!”,
“Aiutami allora a capire quale profeta dice questa parola, o in quale vangelo è scritto questo
pensiero: nessuno mi vuole bene...” “No, non è scritto nella Bibbia, lo penso io.” Si tratta allora
di farle capire che il trucco del Nemico sta proprio in questo “lo penso io” e che credere
fermamente ad un pensiero del genere vorrà dire ben presto realizzarlo, perché la persona
diventa ciò a cui crede. E, se si comincia a comportarsi con gli altri a partire da questo
pensiero a cui si crede, in quanto il pensiero a cui crediamo ci forma, creeremo delle realtà
corrispondenti a questo pensiero che porta alla disperazione.
Invece la solitudine spirituale segue i pensieri che aprono il cuore, che hanno a che fare con la
vita. Rosmini dice per se stesso: “la solitudine mi è cara, perché immerge in profondi pensieri,
e ci fa creare d’intorno una società migliore che gli uomini. Tuttavia non sono già questi monti,
e queste valli, e questa pace e questo silenzio che posseggono il mio cuore. I luoghi materiali
sono troppo angusti per noi, il nostro luogo è Dio. Ah! In quel luogo possiamo ben stare
adagiati, ma quanto è stretta la via che porta alla vita! L’ampiezza infinita, ove si dilata
infinitamente il gaudio del cuore, viene dopo la strettezza.”
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Ecco il luogo della solitudine spirituale – il nostro cuore – e non i luoghi esterni alla nostra
realtà. Ma, una volta scoperta la ricchezza della solitudine spirituale nel cuore, allora si
sapranno apprezzare anche la montagna, la natura, la bellezza dei fiori. E nella solitudine c’è
un silenzio che ci fa esclamare: “ecco il luogo di Dio, ecco la casa di Dio”. E, nella casa di Dio,
Dio parla.
b) IL SILENZIO
Nella vita spirituale bisognerebbe, con tanta umiltà, mettersi in ginocchio e dire: Parla,
Signore, perché il tuo servo ti ascolta (cf 1Sam 3,9). Ma per questo è necessario il silenzio
esteriore e interiore per poter essere aperti alla voce del Signore, per poter dare la precedenza
a Dio. In un certo senso il silenzio significa la passività, però proprio questa passività è la
condizione fondamentale per raggiungere un’attività autentica, dalla quale prendono il vero
significato anche tante altre cose della nostra vita, come ad esempio l’attesa, il fallimento, il
sacrificio, la malattia, la sofferenza, la pazienza, l’accettazione di lasciarsi dire e lasciarsi fare...
In questo modo, nella persona, il cuore si predispone per ricevere Dio e riflettere sulla vita
eterna. Infatti la buona terra sono coloro che, dopo aver ascoltato la parola, la custodiscono in
un cuore puro e in silenzio producono frutto.
E’ il silenzio interiore che ci permette di ascoltare Dio e nello stesso tempo ci rende capaci di
ascoltare il mondo e saperne riconoscere le grida, per le quali anche il Signore ha detto a
Mosè: “ho osservato la miseria del mio popolo in Egitto e ho udito il suo grido…, conosco
infatti le sue sofferenze” (Es 3,7). Solo la persona che si intende del silenzio interiore si
intende anche della voce di Dio, sa ascoltare Dio e sa ascoltare il mondo. Perché è Dio che le fa
ascoltare il mondo e le parla della sofferenza del mondo. Se la persona non vive il silenzio
interiore, ma cerca solo di capire il mondo, sarà indaffaratissima sempre: un attivista, un
pastoralista nel senso deteriore del termine.
Il colloquio spirituale dovrebbe quindi favorire il silenzio interiore, affinché possiamo capire la
voce di Dio. E’ una voce da non trascurare mai. E’ evidente l’amore di Dio per noi, ma alla
comprensione di esso è possibile arrivare solo attraverso il silenzio; è Lui che ci invita a
rimanere in silenzio. Ogni intervento di Dio, ogni azione di Dio è in effetti un invito alla
interiorizzazione attraverso il silenzio. Solo così si può fare il passaggio dall’apparenza delle
cose e delle persone, alla quale spesso si dà assoluta importanza, a ciò che è nascosto, a ciò
che non si vede, non si sente e non si può toccare. L’udito esterno si fa strada verso l’udito
interiore e l’occhio esterno si fa strada verso l’orecchio interiore e, in fine, dalla riflessione si
arriva alla contemplazione, che è la visione per eccellenza, che non smette mai di stupirsi e di cercare Dio in ogni cosa. Su questo cammino ogni evento, ogni intervento di Dio, è prima di
tutto un invito a rimanere in silenzio.
Ed è vero, quando ci troviamo davanti a una cosa bella, prima di tutto stiamo zitti. O quando ci
troviamo davanti ad una grande sofferenza, non è la parola la prima reazione, ma il silenzio.
Nei funerali ad esempio, si parla poco, ma ciò che si dice è sensato, molto riflettuto, sono
molto pesate le parole. E deve essere così.
La persona che sa essere da sola è capace di vivere relazioni non possessive. Se invece la
persona non sa vivere da sola, in questo silenzio, avrà delle relazioni prevalentemente
possessive delle persone, nelle relazione diventerà esclusiva.
c) IL DESERTO
Dopo 16 anni di solitudine nel bosco, quando Serafino di Sarov torna in mezzo alla gente, trova
una fila incredibile di persone che vogliono parlare con lui. Un teologo gli dice: “Come mai tu,
che non hai studiato niente, hai tanta gente che ti viene a chiedere un consiglio spirituale”?
Nella solitudine, nel silenzio, nel deserto, la persona trova la possibilità di una purificazione
profonda e quindi diventa luce. E, quando uno è così purificato, trasparente, la luce con facilità
passa e scalda e può arrivare anche agli altri. Le persone come Serafino sono persone di luce,
hanno sempre qualche parola calorosa da dire a chi vive nel buio, nel dolore. E Serafino stesso
diceva che la strada più cara alla tradizione monastica è quella “strada che guida l’uomo verso la
deificazione per mezzo del deserto.”
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Il deserto è per lui una occasione straordinaria per la
persona che si deifica, santifica, divinizza, perché trova veramente la possibilità di rivestirti di
Dio, in quanto nel deserto non trova altri appoggi, se non Dio, e non cerca altro di essenziale
per la vita. Allora il deserto è quel luogo inabitato, non coltivato, dove è impossibile contare
sulle proprie forze. Perciò dice Filerete di Mosca: “beato il deserto nel quale si ode una voce
tanto desiderata. Beata la voce per mezzo della quale fu annunciato l’avvento del Signore!
Perché se si comanda di preparare la via del Signore non è lontano e desidera visitarci… Che
cosa è il deserto secondo il concetto degli uomini comuni, per l’occhio sensibile? Un luogo che
non è abitato né coltivato dagli uomini anche se è pieno di animali selvaggi e altri esseri
viventi. Allora possiamo capire che cosa significa il deserto per lo sguardo spirituale, per
l’occhio di Dio. Una volta che le passioni, appartenenti alla natura delle bestie, e i desideri
brutali hanno invaso l’uomo, scacciano da lui ogni pensiero spirituale, ogni desiderio puro, ogni
specie di bene e, per così dire, devastano il nobile dominio della sua natura, che cosa diventa
allora la sua anima se non un deserto selvaggio?... E’ forse in questo deserto sconvolto,
desolato, impenetrabile che si fa strada la voce del Signore della gloria e della magnificenza?
Esce lui forse dai tabernacoli beati del cielo e va a visitare la terra devastata dal peccato e
dalla maledizione?”
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Ma il deserto ha due facce; oltre ad essere il luogo della Parola di Dio, è anche il luogo delle
bestie selvatiche, che si presentano nella forma di pensieri e sentimenti cattivi, passionali,
brutti e selvatici, che possono provocare anche tanta paura. Ecco perché il Cardinal Špidlík dice
che di per sé non stanca il lavoro, ma i pensieri e sentimenti cattivi. La parte selvatica del
deserto, la parte più difficile del deserto desolato può anche far nascere nella persona il
profondo desiderio, la profonda necessità di aprirsi a un altro pensiero, a una voce diversa che
non fa paura, ma che pacifica, santifica. Infatti bisogna avere tanta sete della voce di Dio. E
questa voce di Dio esce dai tabernacoli ed entra nel deserto, perché la casa del Signore è lì
dove nasce il desiderio di Dio. Nel deserto, quando nasce questo desiderio, il Signore si sente a
casa, perché è il desiderio più conforme a Dio e più autentico nel senso spirituale. San
Girolamo afferma, a partire da questa esperienza, che il deserto è “la terra promessa che fa
germogliare i fiori di Cristo.”
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3. Il colloquio spirituale dovrebbe favorire la fiducia, la fede e la libertà reciproca, perché è
possibile realizzarlo soltanto sulla “base della fiducia e consiste perciò, non da ultimo, in un
atteggiamento fiducioso tra le due persone.”
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Il compito dell’accompagnamento spirituale è di guidare la persona verso questa fiducia che però dovrebbe passare dalla fiducia interpersonale
alla fiducia in Dio.
Non si tratta dunque primariamente della fiducia tra due persone, ma di arrivare alla fiducia in
Dio e nella sua Provvidenza. Solo questa fiducia spirituale evita anche tanti problemi: che la
persona si attacchi alla guida, che diventi dipendente. E’ importante la libertà reciproca, che
previene il pericolo di scambiare la guida con Dio, e questo può avvenire quando la guida
comincia a sentirsi molto importante per la salvezza dell’altra persona, oppure quando l’altra
persona si attacca alla mano della guida, anziché alla grazia, passata tramite la mano della
guida.
A proposito della fiducia, anche santa Teresa di Lisieux afferma che “è la fiducia, che deve
condurci all’Amore..., ma noi ci sforziamo d’andare a Dio con la fiducia e con qualcosa d’altro,
cercando qualche appiglio, qualche segno, qualche garanzia. Ora, ciò che è proprio della fiducia
è il non cercare altra cosa, il non appoggiarsi che sull’amore e la misericordia. Se si cerca Dio
con la fiducia e con qualcosa di altro, in verità si smette di avere fiducia e si perde tutto.”
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Ciò
significa che non è tanto importante chiedersi continuamente si siamo perfetti, se siamo
abbastanza bravi, buoni, forti, ma se siamo fiduciosi. Se noi non nutriamo una fiducia totale,
conduciamo una vita a metà, che ci porta ad una grande disperazione, la quale può essere
anche positiva se prende un esito buono. La disperazione non avviene perché “condannati da
Dio, ma… condannati da noi stessi, vedendoci incapaci della fiducia che ci salverebbe. Bisogna
passare per una tale disperazione attenuata, perché muoiano le radici orgogliose che ne sono
all’origine…, perché la fiducia sbocci... L’orgoglio muore disperando.”
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Dopo aver sperimentato i frutti della fiducia, si guarisce anche da altre malattie, soprattutto
delle paure. I santi sono testimoni che, con il fatto di crescere nella fiducia e nell’abbandono
nelle mani di Dio, contemporaneamente vedevano diminuire in loro le varie paure di fronte alle
prove, alla sofferenza, alla croce, alla morte. Prima o poi dobbiamo ammettere che, a
prescindere dalle cose che facciamo, non potremo mai evitare le prove nella vita. Quindi è
inevitabile pensare di non fare nella vita anche degli sbagli. Perciò è importante sapere che
credere significa essere convinti che i misteri della fede hanno una forza che salva e fa
progredire, malgrado i nostri peccati, malgrado gli sbagli che possiamo fare, malgrado il fatto
che le cose che ci possono tormentare siano tante. Con questa fede che ci apre a nuove
visioni, cambia la prospettiva, cambia la luce, cambiano i colori. Infatti, quando si crede nella
Provvidenza di Dio, malgrado gli sbagli, le cadute, la Provvidenza stessa ci farà progredire nella
vita, ci farà andare avanti comunque. In una parola, ciò significa credere che “la tua fede ti ha
salvato”, che ti ha salvato l’amore divino, nel quale hai creduto. Infatti, nessun bene è
perfettamente conosciuto se non è perfettamente amato.
4. Il colloquio spirituale dovrebbe favorire la spiritualità incarnata, l’integrazione della realtà di
vita quotidiana. Si tratta di quella spiritualità che ha a che fare con la persona nella vita
quotidiana, 24 ore su 24. Parlando dell’integrità della persona, abbiamo parlato
dell’integrazione della vita passata, ma la spiritualità incarnata è piuttosto legata alla vita
presente, attuale, all’oggi, altrimenti si rischia di diventare delle persone nostalgiche, sempre
orientate al passato. Ci sono infatti pochi sognatori del futuro, ma anche questo c’è. A noi
invece interessa ciò che realmente e eternamente esiste, cioè quello che rientra nel volere di
Dio.
“Non chi dice Signore, Signore… ma colui che compie la volontà del mio Padre” (Mt 5,12), che
si consuma nella Parola: “il Figlio dell’uomo infatti è venuto a cercare e a salvare ciò che era
perduto” (Lc 19,10). Quindi, con la grazia di Dio, è importante favorire la valorizzazione e
l’accettazione spirituale della realtà quotidiana, quella presente e non quella ideale. La vita
reale di ogni giorno, tante volte, è fatta di fango, di rabbie, di male, di grazie e disgrazie, di
tutto e di più. All’interno di questa visione, viene data alla persona la possibilità di accettare
spiritualmente sia il successo che il fallimento, la malattia o la salute. La persona che è
spirituale, nell’ottica dell’incarnazione, si fa pochi problemi che le cose, a prima vista, siano
andate bene o male. Nella vita non dobbiamo dare il voto a ciò che facciamo, ma bisogna solo
consegnarci e “non bisogna soprattutto provare di riuscire, ma accettare, al contrario, di vivere
in una perpetua atmosfera di sconfitta. Appena si è fatto qualcosa, bene o male, la si offre e si volta pagina... e si finisce per offrire senza chiedersi neanche più se è bene o se è male”,
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e
l’offerta va fatta così, come è, senza cercare di “perfezionarla” prima di presentarla a Dio. “Chi
si lava prima di presentarsi, vuol dire che non vuole dare tutto, ma vuole dare solo ciò che è
bello. Ma Cristo desidera proprio ciò che è brutto... per guarirci. Non sono i sani che hanno
bisogno del medico... (Mt 9,12-13). Le cose sono create per essere bruciate, polverizzate,
gettate dalla finestra. Per un simile uso poco importa che siano belle o brutte: le ceneri
saranno le stesse... Teresa del Bambin Gesù diceva a una sua sorella dopo un piccolo sacrificio
oscuro: Ciò che hai fatto ora è più importante che se tu avessi ottenuto la restaurazione degli
ordini religiosi in Francia! Facciamo fatica a crederlo…, è la lotta eterna fra lo spirito di Dio e lo
spirito umano che vorrebbe sempre costruire dimore definitive.”
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Ecco la vera fiducia nell’amore di Dio e non in noi stessi.
5. Il colloquio spirituale dovrebbe favorire la sobrietà.
Chi è sobrio? Chi riesce a mantenere la sobrietà spirituale? Prima di tutto bisogna dire che la
sobrietà ha a che fare con l’equilibrio della persona integra, al quale si può giungere soltanto
quando si conosce bene la meta che si vuole raggiungere nella vita.
Il fatto che il colloquio spirituale debba favorire la sobrietà significa, concretamente,
incoraggiare nei periodi difficili di prova ed esigere la calma nei periodi di grandi entusiasmi.
Significa aiutare a far ordine nella vita e a tener conto del suo ritmo; favorire inoltre ad avere
la mentalità, il modo di ragionare da ‘contadini’, che sanno mettere insieme tutto e trovare il
giusto equilibrio nel tener conto della natura, del tempo, della temperatura, del ritmo della
terra, delle proprie forze, ecc. E’ proprio tipico dello Spirito di Dio che vede tutto e tiene conto
di tutto.
Altrimenti si rischia di assomigliare a un cagnolino che continuamente corre dietro ad ogni cosa
che si presenta. Ma la persona non può correre dietro ad ogni offerta che le viene fatta, dietro
ad ogni frutto dell’albero che si presenta bello, desiderabile agli occhi e piacevole alla bocca. La
sobrietà, spiritualmente parlando, non è indifferenza, ma un equilibrio interiore, è frutto di una
vita che conosce bene la meta ma, nello stesso tempo, è la più grande forza nel raggiungere la
meta, in quanto tale equilibrio è sempre in funzione di questa meta. Quindi la sobrietà diventa
doppia forza nella vita interiore, perché tiene unito tutto in modo che la persona intera
collabori nell’andare verso una direzione. E siccome la nostra meta è l’unione totale con
l’amore divino, che è amore misericordioso, allora possiamo parlare anche del cammino
salvifico della persona, il quale ci aiuta a capire ancora di più quanto sia importante supplicare
la grazia della sobrietà spirituale.
Anche sant’Ignazio di Loyola ha scritto una regola che aiuta moltissimo a mantenerci
nell’equilibrio: “Chi è consolato pensi a umiliarsi e a ridimensionarsi quanto più potrà,
pensando al poco che vale nel tempo della desolazione, senza quella grazia o consolazione. Al
contrario chi sta nella desolazione, pensi che, con la grazia sufficiente, può molto per resistere
a tutti i suoi nemici, prendendo forza dal suo Creatore e Signore.”
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Nella vita è tanto facile
lasciarsi guidare dai sentimenti. Quando il sentimento è bello, ci si eleva, quando è brutto, si
cade giù e così si vivono sempre degli estremi. Non lasciarsi condizionare da questo: ecco la
sobrietà della mente sana e anche biblica. Infatti oggi dicono: “Osanna, Osanna”, e domani:
“Crocifiggilo!”. Questo è successo al Figlio di Dio.
6. Il colloquio spirituale fa entrare nella comprensione del linguaggio spirituale, che include il
linguaggio della promessa di Dio, della logica pasquale, del discernimento spirituale, dell’amore
divino. Ogni parola ha il suo significato spirituale, per cui è importante un’intesa spirituale sui
significati. E ogni parola spirituale ha una storia, che si carica della tradizione, della sapienza
spirituale di chi ci ha preceduto e che può diventare un tesoro prezioso per noi. Per questo non
si può fare a meno di cercare proprio dai Padri della tradizione un linguaggio spirituale che ci
accomuna con loro e tra di noi.
7. Il colloquio spirituale dovrebbe portare alla purificazione del cuore, aiutare a vincere le
passioni nascoste, avendo la meglio sulle forze dell’egoismo. Se ci chiedessimo, perché noi così facilmente e così volentieri parliamo male degli altri? Forse è questa la risposta: unicamente
perché prima noi abbiamo pensato male, perché ci siamo riempiti il capo di pregiudizi, perché
ci siamo abituati a considerare le cose secondo i nostri desideri e interessi, le abitudini e
passioni. Va detto ancora che sono proprio le passioni che suscitano giudizi falsi. Tanti Padri
sono lì a ricordarci che a causa dell’orgoglio, siamo pronti a vedere il peccato degli altri, ma
lenti a riconoscere i nostri, ed è proprio dal vincere questo atteggiamento che dipende la
nostra vera crescita e maturità spirituale.
Quindi il colloquio spirituale dovrebbe favorire nella persona accompagnata il riconoscimento
dell’influsso del proprio ego, affinché il divino possa crescere in lei, e concludere come dice San
Giovanni Battista: “Egli deve crescere e io diminuire” (Gv 3,30). Solo a questo scopo si fa la
discesa nel cuore, per poter entrare nelle profondità di se stessi. La verifica del superamento
del nostro ego e di tutte le nostre difficoltà sta in questo: se riesco ad ammettere il peccato o
no; se percepisco il bisogno di essere purificato, perdonato dal Salvatore o no; se ammetto la
mia fragilità, debolezza, malattia provocata dal peccato o no; se sento il bisogno di essere
guarito dall’unico medico, cioè da Gesù Cristo, mio Signore, o no. Il peccato si comprende
nell’ambito relazionale, che è anche l’ambito della salvezza, in cui la persona può sperimentare
l’amore di Dio nel perdono. Solo Dio può perdonare i peccati (cf Lc 5,21). Le guarigioni operate
da Cristo e narrate nel Vangelo hanno questa divina conclusione: “la tua fede ti ha salvato” (Lc
7,50). Davvero la cosa più importante è dare la precedenza al principio della fede e dell’amore.
Quando, con il perdono, Dio Padre rivolge di nuovo la parola all’uomo, questi riconosce il Padre
e desidera di nuovo la figliolanza. Dio raggiunge l’uomo nel suo peccato rivolgendogli la parola,
che è, allo stesso tempo, parola di perdono e chiamata. Si pensi alla vocazione di Pietro, che si
incontra con lo sguardo misericordioso di Cristo nel momento del peccato. La conversione
spirituale può essere vissuta solo direttamente in prima persona. C’è una sola visione beata,
secondo un detto che avrà tanta fortuna negli ambienti monastici, quella del proprio peccato:
“Chiesero a un anziano: ‘Come mai alcuni dicono di vedere gli angeli?’. Rispose: ‘Beato colui
che vede sempre il proprio peccato’”.
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Chi non fa l’esperienza del perdono dei propri peccati,
di essere amato da Dio, non può annunciare l’amore di Dio a nessuno e non può amare
nessuno. “È un incontro nel quale l’uomo viene rigenerato… Il perdono dei peccati è
un’esperienza totale che segna l’uomo in tutte le sue dimensioni”.
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Convertirsi significa quindi
scoprire in Cristo un’altra visione della vita, di se stessi e del mondo, cambiare così l’oggetto
della propria attenzione: da un’idea alla Persona, all’Amore. E, se cambia l’oggetto, cambia
tutto, perché se fino ad ora si era vissuti solo per sé, d’ora in poi si vive tutto con Cristo, per
Cristo e in Cristo.
8. Il colloquio spirituale dovrebbe favorire la discesa nelle profondità del nostro essere tramite
lo sviluppo nell’autenticità dei desideri. Lo sviluppo vuol dire che c’è un crescere, un andare
avanti, un progredire, una maturazione.
Che cosa desidera una bambina piccola? Una bambola, un po’ di affetto... E un neonato?
Essere allattato, cambiato... Dopo però, crescendo, si sviluppano anche desideri che possono
avere diversi fini che vogliono raggiungere, dai desideri soltanto della carne ai desideri dello
Spirito. E nella terza età diventano sempre più essenzializzati, fondamentali... Ma, per arrivare
a questo atteggiamento, c’è bisogno di una maturità spirituale. Quindi bisogna favorire la
discesa nelle profondità del nostro essere. Più la persona entra in profondità, più si
approfondiscono e si convertono anche i suoi desideri. La Bibbia è piena del conflitto di tutte le
forme del desiderio. Certo, non le approva tutte, e anche i desideri più puri devono passare
una purificazione radicale, ma così prendono tutta la loro forza e danno tutto il suo valore
all’esistenza umana. Alla radice di tutti i desideri dell’uomo c’è la sua povertà radicale, e il suo
bisogno fondamentale di possedere la vita nella sua pienezza e nel pieno sviluppo del suo
essere. Proprio perché il desiderio è qualcosa di essenziale e di inestirpabile nell’uomo, può
essere per lui una tentazione pericolosa e costante. Eva ha peccato perché ha ceduto al
desiderio dell’albero (cf Gen 3,6) e, avendo ceduto a questo desiderio, diventa lei stessa
vittima del desiderio che la porta verso suo marito e subirà il dominio dell’uomo (cf Gen 3,16).
Nell’umanità, il peccato è come un desiderio selvaggio pronto a scatenarsi, che il Nuovo
Testamento chiama “concupiscenza” (cf 1Gv 2,16, Gc 1,14s). Ogni desiderio ha una parte legata all’ego. Pertanto ha bisogno di essere convertito, di essere liberato dalla concupiscenza,
per essere orientato alla relazione con Dio, polarizzando tutte le energie e dando la capacità di
smascherare le illusioni e le contraffazioni. In questo processo ha una grande importanza
l’attesa, che garantisce una feconda preparazione del terreno interiore per essere in grado di
saper riconoscere i desideri da seguire rispetto alle concupiscenze. Per questo André Louf dice
che il ruolo della guida sta “nell’aiuto cha ha apportato al soggetto in questo momento cruciale,
affinché ne sposi tutti i soprassalti e ne beva tutta l’amarezza, in una paziente attesa della
grazia che vi deve sgorgare.”
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Vediamo la donna Samaritana che è giunta al settimo marito attraverso i sei mariti, attraverso
sei desideri, di cui nessuno l’ha soddisfatta. “Hai avuto cinque mariti e quello che hai ora non è
tuo marito; in questo hai detto il vero” (Gv 4,18). Quando la Samaritana ha incontrato Cristo,
lo Sposo dell’umanità, realizza la sponsalità delle sue relazioni. Cristo non ha chiesto alla
Samaritana dove era stata, che cosa aveva fatto, perché non era arrivata prima... No, ma
evidentemente la Samaritana doveva passare attraverso sei desideri diversi fino ad arrivare a
desiderare l’acqua eterna. Perciò la donna poteva lasciare la brocca, simbolo della vita vecchia,
di tutti i desideri mai soddisfatti, perché aveva trovato il vero Sposo, la relazione vera.
9. Il colloquio spirituale dovrebbe favorire il raccoglimento nel proprio cuore.
Quando si tiene nelle mani una perla, si cerca di maneggiarla con tanta cura, perché siamo
consapevoli che è una cosa preziosa. Le distrazioni, in questo caso, perdono automaticamente
di forza. La tentazione può parlare, ma non ci lasciamo confondere. La tentazione vorrebbe
portarci da altre parti, ma noi andiamo avanti nell’aver sempre cura della perla. Vediamo allora
che non è possibile parlare di raccoglimento spirituale se non c’è niente su cui essere raccolti.
Esistono diversi esercizi psicologici, che ci fanno più o meno concentrare nello studio, ma non
siamo ancora arrivati all’acquisizione di un atteggiamento di raccoglimento interiore, nel cuore,
che prende vita dopo avere capito, scoperto, riconosciuto, sperimentato, che la sorgente
d’acqua che zampilla per la vita eterna è dentro il nostro cuore. Ecco la nostra perla, la nostra
speranza, che “non delude, perché l’amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo
dello Spirito Santo” (Rm 5,5). Il raccoglimento spirituale ci porta ad un atteggiamento di
continua adorazione per la preziosità che portiamo dentro, il che significa che automaticamente
sgorga la preghiera incessante nel nostro cuore.
E’ indispensabile quindi la ricerca di quell’unica perla, di quell’unico centro (cf Rm 5,5), il
fondamento in Cristo: “nessuno può porre un fondamento diverso da quello che già vi si trova,
che è Gesù Cristo. E se sopra questo fondamento si costruisce con oro, argento, pietre
preziose, legno, fieno, paglia, l’opera di ciascuno sarà ben visibile: la farà conoscere quel
giorno che si manifesterà col fuoco, e il fuoco proverà la qualità dell’opera di ciascuno. Se
l’opera che uno costruì sul fondamento resisterà, costui ne riceverà una ricompensa” (1Cor
3,11-16) e il senso della sua vita, che è nel rimanere per sempre in Cristo e Cristo in noi (cf Gv
15).
10. Il colloquio spirituale porta sempre di più alla vera conoscenza di Dio, di se stessi e del
mondo perché ci fa seguire il cammino della purificazione dalla falsa immagine di Dio, di me e
di noi, delle relazioni, dell’amore. Ammettendo sempre di più chi è Dio nella sua verità nei
nostri confronti, quale Padre che ci ama, allora si riscopre la vera figliolanza e si approfondisce
la consapevolezza che tutto è grazia di Dio. Sentiamo Cristo che ci ricorda: “Senza di me non
potete fare nulla” (Gv 15,5) e san Paolo: “Tutto posso in Colui che mi dà la forza” (Fil 4,13).
Il cammino della vera conoscenza di Dio, di me e del mondo non arriva mai velocemente e
deve includere la grazia della rivelazione stessa di Dio all’uomo. Dio cerca nella persona la
possibilità di rivelarsi, di rivelare il suo Volto. Nello stesso momento, anche la persona comincia
a sentire la necessità di aprirsi sempre di più, di rivelarsi a Dio e anche agli altri nella sua
autenticità; quindi, lentamente riesce anche a far cadere il mantello delle false protezioni e le
maschere dei giochi cominciano a sciogliersi. A proposito di questo, Rosmini si esprime in
questi termini: “l’essere tentato dai mali, e quasi oppresso, abbassa l’altezza del nostro
pensiero, e ci costringe, quasi involontariamente, a riconoscere ciò che siamo, senz’alcuna
illusione. E il senso di tanta nostra miseria viene reso dalla grazia il veicolo che ci conduce alla cognizione di Dio. Poiché non trovando in noi altro che miseria, e non altro in questo mondo
che tribolazione, il nostro cuore, che non può starsi senza un bene ed un amore, si rivolge
finalmente a Dio, quasi per una felice necessità di cui si serve la grazia, e in Dio interamente si
abbandona; ed allora incomincia a riconoscerlo per il vero Bene, e ad averlo per il solo suo
Amore, e sente – oh quanto! – la verità di quelle parole di Gesù Cristo: Venite a me, o voi tutti
che siete affaticati e oppressi, ed io vi ristorerò.”
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Alle volte ci vuole un lungo cammino per avere il coraggio di ammettere le proprie illusioni, i
falsi appoggi e sicurezze e riconoscere che quello che volevamo diventare partendo dalle
nostre capacità, o volevamo far apparire davanti agli occhi degli altri, non sta in piedi e non
viene costruito sulla roccia, ma sulla sabbia. Infatti, quando in noi stessi non riusciamo a
trovare nessun appoggio, cominciamo a cercarlo in Dio e questa è la grazia più grande per
capire chi siamo realmente e veramente davanti a Dio. La nostra più grande verità è che senza
Dio non possiamo vivere (cf Gv 15). Non conta se siamo capaci o meno, se siamo bravi o no. E
anche se avessimo migliaia di capacità e di possibilità di fare bene le cose, finché non viviamo
da figli, non viviamo dalla nostra verità più profonda e autentica.
11. Il colloquio spirituale conduce alla cristoformità, per la quale non abbiamo bisogno di tanti
libri di teologia o di spiritualità, ma di persone che, con la loro testimonianza, trasmettono la vita
vissuta in Cristo, per Cristo e con Cristo e che indicano la strada verso il Padre. Proprio perché
queste hanno vissuto come Cristo, inevitabilmente fanno vedere che la via personale passa per la
via crucis, che include la logica pasquale, senza la quale non si potrebbe mai arrivare alla
cristoformità.
Quando nasce un bambino, spesso i parenti dicono che ha gli occhi del papà, la bocca della
nonna, le dita della mamma, ed è naturale cercare le somiglianze. E la somiglianza con Cristo
che cosa significa? La cristoformità richiede la visione integra di Cristo, altrimenti è facile
vedere in Cristo un’immagine ridotta a certi fatti, identificarlo con un taumaturgo, escludendo
la via pasquale. Una visione parziale di Cristo permette all’uomo di prendere solo quelle parti
che piacciono, che lo attirano. Non è impossibile allora trovare in Cristo solo alcune cose che
piacciono anche ai sensi: Egli ha mangiato, ha visitato le persone, ha camminato, ha parlato,
viaggiava sulla barca... Siccome Cristo ha realizzato tutto ciò che ha insegnato, ci vuole
necessariamente una visione totale e integra della sua Persona che ha offerto la vita per tutti
ed è risuscitato il terzo giorno. La cristoformità include tutto ciò che Lui ha insegnato e vissuto,
anche il Getsemani, la croce e la morte. Bisogna però dire che Cristo non ha sofferto per
soffrire, ma ha sofferto per rivelare l’amore divino, che non avrà mai fine. L’amore divino ha
sempre infatti due aspetti: uno svela il lato tragico dell’amore, il sacrificio, l’altro il compimento
dell’amore sacrificale come gioia di questo sacrificio. E ogni amore maturo ha sempre queste
due dimensioni. Senza la consolazione, la beatitudine, il sacrificio da solo, rischia di essere
masochismo, e senza il sacrificio qualcosa di immaturo e di superficiale.
Il problema che si pone è proprio come far entrare nella nostra vita la sofferenza, che a tutti i
costi l’uomo vorrebbe eliminare. P. Molinié però fa vedere tutta un’altra visione della sofferenza
dicendo che “non è la sofferenza che rende difficile la vita cristiana. La sofferenza è dolorosa
(per definizione), ma non è pericolosa. Dio non la manda, per metterci in pericolo, ma per
salvarci dal pericolo”,
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per allontanarci dai falsi dei e dalle false ricerche di salvezza, che
spesso però passano attraverso grandi dolori. Del dolore si intendeva molto bene lo scrittore
russo Dostoevskij, grande artista, che è stato molti anni anche in prigione. Per lui: “la
sofferenza è una buona cosa… tramite essa tutto è espiato!”
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La sofferenza, vissuta in questo
modo, fa scoprire i significati immensi della sapienza di vita. “Tutto ciò che viene sofferto nel
buio, perché si ama, nell’altro mondo non è il buio ma la luce, allora il carbone nero con cui si
disegna l’amore sulla terra, soffrendo e morendo diventa il colore della carità cioè il colore
della luce”.
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Siamo chiamati però a lasciarci ispirare e a contemplare la sofferenza di Cristo Salvatore. Edith
Stein ci richiama: “Se desideri raggiungere Cristo, non lo cercare mai senza la sua croce… il
mistero della croce può capirlo solo chi è crocifisso… Noi siamo chiamati a patire con Cristo per collaborare alla sua opera di redenzione… Cristo continua a vivere in noi e soffre in noi. Così la
nostra sofferenza è feconda.” E’ Gesù crocifisso che ci “farà capire la croce, e non la croce che
ci farà capire Dio: al contrario la croce ci svela l’aspetto più incomprensibile di Dio.”
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L’uomo
vecchio deve morire per arrivare all’assimilazione a Cristo e anche alla capacità di poterlo
seguire nella sobrietà e non secondo modelli romantici. Gesù stesso ci dice: “Chi non prende la
sua croce e non mi segue, non è degno di me” (Mt 10,38) e “Se hanno perseguitato me,
perseguiteranno anche voi” (Gv 15,20).
Queste parole ci fanno vedere e credere che “la sofferenza è una grande forza, perché santifica
non soltanto gli innocenti, ma anche coloro che hanno peccato, che hanno sbagliato indirizzo di
vita, ma che lo sanno ammettere”,
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perché Cristo è morto per tutti. Allora la “sequela Christi”
ci apre le immense dimensioni della cristoformità, ma tutte hanno in comune l’invito ad offrire
le sofferenze e i dolori per qualcuno. Nei colloqui spirituali è molto importante aiutare le
persone in questo accompagnamento, affinché non si chiudano nella sofferenza, ma rimangono
nell’apertura della relazione, perché mettere nella relazione ciò che si sta offrendo significa
dare al dolore un significato relazionale.
Per questo è necessario nella via della cristoformità scoprire la pedagogia, la teologia della
Croce. Il Cardinal Špidlìk dice che proprio “nell’atteggiamento verso Cristo sofferente si riflette
la maturità della vita spirituale”.
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12. Il colloquio spirituale ci introduce ad una capacità contemplativa, alla visione di Cristo in
tutte le cose, perché tutto porta incise le sue tracce, sia per la creazione – per mezzo di Cristo
tutto è stato creato –, sia per la redenzione – Cristo ha già assunto su di sé tutto il male del
mondo. Quindi niente è escluso da Lui; solo da ciechi vediamo ancora tutta la realtà divisa,
separata e rotta, ma in verità Cristo ha già unito tutto con il suo immenso amore. Anche nei
momenti di grande dolore, con la grazia di Dio, possiamo già vedere come tutto è collegato in
Lui, e pure lo smarrimento, la disperazione si possono trasformare, perché la grazia
contemplativa, lo sguardo su Dio, porta il frutto di Dio, prima o poi.
Siamo di nuovo lì al punto più importante dei colloqui spirituali, cioè la nostra salvezza.
13. Il colloquio spirituale ci fa trasformare l’esperienza personale in esperienza spirituale sotto
lo sguardo di Dio, chiedendosi che cosa vede Dio nella nostra concreta esperienza. Solo con
questa domanda, riflessione e preghiera si può arrivare alla vera esperienza religiosa,
spirituale. Se invece le cose vengono vissute solo in modo umano e interpretate soltanto a
partire da noi, è impossibile arrivare ad una lettura spirituale. La nostra vita non va guardata
solo con i nostri occhi, perché la semplice lettura psicologica dei fatti ancora non mi potrà
salvare. Questo richiede a noi di fare il passo dall’esperienza soggettiva all’esperienza
spirituale, superando solo uno sguardo puramente umano su di essa. Cristo è l’uomo perfetto,
tutto quello che c’è di pienamente umano è già contenuto in Lui e l’umano trova la sua verità
in Lui.
14. Il colloquio spirituale ci fa edificare, costruire le colonne portanti, soprattutto sullo sfondo
dei momenti di più grande prova nella nostra vita, perché il seme, per crescere veramente,
deve morire. “In verità, in verità vi dico: se il chicco di grano caduto in terra non muore,
rimane solo; se invece muore, produce molto frutto” (Gv 12,24). Ogni morte è preceduta da
tante sofferenze, ma ciò non significa che la sofferenza vada cercata o provocata
volontariamente. Ma quando si presenta, quando bussa sulla porta, va accolta e abbracciata.
Le colonne spirituali quindi nascono dalle tribolazioni, dalle prove, perché le sofferenze e le
prove hanno già dimostrato che il seme è già morto ed è già nato qualcosa di nuovo, la vita
nuova: la colonna spirituale è già vita, frutto eterno della morte. E’ ovvio che nel momento
della morte si soffre, ma la fede nel Dio vivo, che vince la morte, mi basta. La mia morte non
la posso capire, la vita di dopo mi farà capire l’effetto della morte, perciò le colonne spirituali
sono già la vita dopo la morte di qualche cosa di noi.
Quindi, quando una persona sta nella prova, non cerca in primo luogo di capire i significati
chiari di che cosa sta succedendo nel momento della morte del seme, ma approfondisce la fede
che dà la chiara certezza che questa è la strada e, a sua volta, quando i tempi saranno maturi,
la luce di Cristo illuminerà anche le ombre.
Ognuno di noi ha bisogno di essere aiutato in questo cammino. “Non vi è nulla di più
miserevole e di più vulnerabile di coloro che non hanno una guida e cadono come le foglie… I
rischi di smarrimento e di caduta, infatti, sono tanto più grandi quanto più si progredisce. Le
trappole tese dai demoni sono tanto più numerose e più sottili quanto più l’uomo avanza e si
avvicina al termine”.
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Non è difficile incontrare persone che hanno già fatto un bel tratto di
strada e, quando si sono trovate nella forte prova, sono tornate indietro, perché si sono
trovate disarmate, impreparate alla lotta, oppure si sono trovate senza un valido aiuto della
guida. San Callisto e sant’Ignazio Xantopuloi osservano che “coloro che vogliono camminare
senza ricevere consigli seminano nella fatica e nel sudore e spesso non fanno altro che
sognare”.
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Per questo un ripetuto consiglio dei Padri è: “Se non hai un maestro, devi
cercartene uno a ogni costo”.
15. Il colloquio spirituale favorisce la scoperta del mistero e dell’atteggiamento da assumere di
fronte al mistero della vita, che richiede caratteristiche del tutto particolari, perché la
sensibilità per il mistero ha un ruolo fondamentale nei colloqui spirituali. Mistero non significa
non sapere, ignoranza, ma significa ammettere e riconoscere in noi e intorno a noi una
grandezza che ci supera. “Ogni sicurezza cercata escludendo il mistero, in mezzo alle cose
ovvie della vita pratica e alle suggestioni del cuore, resta in definitiva come la vita e il cuore,
quando si basano su se stessi; perciò crollerà. Solo se tutto ciò viene trasceso nell’infinità di
Dio, solo se anche la nostra esperienza viene ancorata a un aldilà dell’esperienza, possiamo
sperare in sicurezza, stabilità e futuro duraturo”.
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Il mistero fa parte di Dio, e proprio per questo nei colloqui non dovrebbe mai mancare
l’atteggiamento tipico di stare davanti al Mistero, perché solo così può nascere il dialogo
aperto, altrimenti è fissato come un chiodo, già concluso in anticipo. Solo la consapevolezza di
essere davanti a un grande mistero ci aiuta a non avere delle certezze, che possono essere
assolutamente false, e si va avanti come un carro armato. Invece la persona spiritualmente
sensibile usa anche un linguaggio che lo rispecchia. Impiega le parole in modo delicato: “Se ho
capito bene…”, “Forse, volevi dire così…?”
16. Il colloquio spirituale ci conduce alla capacità di amare sempre di più Dio e fratelli.
Quando cresce nell’amore, automaticamente la persona riceve la forza spirituale; con la
diminuzione dell’amore, diminuisce anche la forza di operare il bene. Se pensiamo ai santi, ai
martiri, non ci sono dubbi, per loro la maggior grazia ricevuta dal Signore era quella di poter
soffrire per Lui e in questo modo testimoniare il loro amore per Dio e per gli amici e, alle volte,
anche per i nemici. E’ il segno della vera vita interiore: l’uomo nuovo è capace di amare senza
riserva e benedire l’umanità con l’amore di Cristo. Ma per questa grandissima grazia bisogna
supplicare molto ed avere tanta pazienza. Quando un discepolo rivolge la domanda a padre
Cleopa, come si poteva salvare, questi risponde: “Pazienza, pazienza, pazienza. Il fratello
chiese: che cosa devo sopportare pazientemente?, e il padre disse: Sopporta pazientemente gli
insulti e il disonore per amore di Cristo!”
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17. Il colloquio spirituale fa maturare nella vera umiltà, perché l’umiltà porta alla docilità e la
docilità al dialogo, alla relazione, alla fiducia e a tutto il resto a cui finora ci siamo riferiti.
L’umiltà autentica, quindi, a differenza dell’umiltà falsa, è la maestra di tutte le esperienze
spirituali che, prima o poi, portano alla sapienza spirituale. Lo conferma anche sant’Antonio
dicendo: “Vidi tutte le reti del Maligno distese sulla terra, e dissi gemendo: – Chi potrà mai
scamparne? E udii una voce che mi disse: – L’umiltà”.
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Quindi non conviene incoraggiare gli
sforzi umani per acquisire l’umiltà, in quanto si tratta di una pura grazia di Dio, ma
“l’accompagnatore dovrebbe pazientemente aspettare il proprio accompagnato nel luogo dove
la grazia dolcemente lo spinge: quello dell’umiliazione e della contrizione del cuore, il luogo
della sua pasqua interiore, dove la nuova vita potrà sgorgare alla fine”.
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Tuttavia alla vera
umiltà, come frutto puro dello Spirito Santo, si arriva “attraverso un percorso inevitabile di
umiliazione, [che] riesce ad eludere le astuzie di questa manipolazione strana ed a ridurre
l’influenza negativa del super-io, fino a renderlo tale da potersi egli stesso lasciare investire
nell’interiore dallo Spirito”.
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Perché allora è tanto importante l’esperienza dell’umiliazione nel cammino spirituale? Perché è
lo stato più favorevole che apre l’uomo all’azione dello Spirito Santo e alle sue grazie. Inoltre,
è la più efficace per sciogliere il muro più duro, cioè l’orgoglio e la superbia, il potere, il
benessere superficiale. Superficialità, perfezionismo, narcisismo si vincono solo con
l’umiliazione che, a sua volta, ci protegge dal rischio “di ridurre una vocazione o un percorso
spirituale a uno specchio narcisistico dove ogni anima si ammira, rischiando come Narciso, di
annegarvi”.
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In questo cammino è più che mai importante avere il senso delle proprie debolezze e della
propria fragilità, per non rischiare di vantarsi di noi stessi e di contare sulle nostre forze e sulle
nostre capacità. Questo ci porterebbe prima o poi a trovarci nell’assolutizzare i doni,
scindendoli dal Donatore. Riconoscere la nostra debolezza ci permette invece di sentire il
bisogno di Lui e del suo amore e questo ci rende sensibili, pazienti e buoni anche verso gli altri.
Si tratta di una vera prova, la quale si vince con le parole di san Paolo: “Di lui io mi vanterò! Di
me stesso invece non mi vanterò, fuorché delle mie debolezze” (2Cor 12,5). E padre Cleopa
diceva: “l’umiltà nasce dall’obbedienza senza brontolii”
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, quindi senza lamentele,
mormorazioni e continue proteste.
Se queste parole si prendono da un punto di vista psicologico, la persona facilmente si
innervosisce, invece quando si scopre nell’obbedienza un valore spirituale fondamentale per la
nostra salvezza, allora si riesce ad attingere la forza e la grazia e non c’è più bisogno di
brontolare. Questo è il frutto spirituale e non quando decidiamo noi di non brontolare più.
André Louf afferma che “si tratta di una virtù che rinvia non tanto alla generosità di ogni uomo
di buona volontà, piuttosto ad un cammino concreto… Un tale percorso si gestisce non con gli
sforzi dell’uomo, ma per mezzo dell’insondabile pedagogia che Dio stessa spiega al suo
riguardo… e su questo percorso dell’umiliazione dello spirito, solo Dio può prendere l’iniziativa…
L’umiliazione è in effetti l’ultima carta da giocare della pedagogia divina, quando Dio costata
che qualcuno si trova sul punto di perdersi sul cammino della falsa virtù… solo un’anima alle
prese con i tormenti dell’umiliazione può divenire sensibile alla grazia ed apprendere un po’ alla
volta a farsi docile alla sua attività”.
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18. Il colloquio spirituale fa comprendere la parola di san Paolo: “questa infatti è la volontà di
Dio, la vostra santificazione” (1Tes 4,3).
Come alla cristoformità non si può giungere con una visione parziale di Cristo, così è anche per
la santità. Occorre uno sguardo integrale su Cristo e sulla salvezza che ha operato. E’ ovvio
che non possiamo santificarci da soli, ma ci può santificare solo lo Spirito, Colui che ci conduce
alla cristoformità. Nella vita sempre possiamo scegliere, possiamo decidere in quanto liberi. Noi
siamo santi nella misura in cui abbiamo deciso di aprirci al Santo, allo Spirito, alla sua
presenza e alla sua azione che trova in noi e nella nostra vita spazio e ‘permesso’ di agire
secondo il volere di Dio. Più diamo spazio, tempo, precedenza, ascolto, possibilità di agire, più
lo Spirito agisce, più è presente e più realizza la sua promessa. L’obbedienza nella vita
spirituale significa anzitutto acconsentire al movimento che ci rende nuova creatura, è questo
passaggio dall’uomo vecchio all’uomo nuovo nato segretamente nelle acque battesimali, ed è
una esigenza iscritta nel nostro battesimo: la docilità al principio della santificazione, cioè allo
Spirito Santo.
Dice Isaia: “così sarà della parola uscita dalla mia bocca, non ritornerà a me senza effetto,
senza aver operato ciò che desidera e senza aver compiuto ciò per cui lo mandata” (55,11). La
persona, a partire della Parola di Dio, ha la possibilità di realizzare la propria vita in modo
totale in quanto tutto viene compito. E i santi sono testimoni di questo, a partire da san Paolo che dice: “Siamo infatti tribolati da ogni parte, ma non schiacciati; siamo sconvolti ma non
disperati; perseguitati ma non abbandonati; colpiti ma non uccisi, portando sempre e
dovunque nel nostro corpo la morte di Gesù, perché anche la vita di Gesù si manifesti nel
nostro corpo” (2Cor 4,8-10). Paolo sapeva bene che le tribolazioni sono riservate a tutti e che
è proprio quando si pensa di esserne esenti il momento in cui esse sono più vicine. Pace e gioia
spirituali possono venire solo da Dio e proprio per questo possono diventare un aiuto vero nei
momenti di inquietudine, di persecuzione, di prove, di conflitti, di malumori… Paolo ha
sperimentato sulla propria pelle che non c’è nessun momento della vita così grave nel quale
non si possa sopravvivere, poiché si è sempre sorretti da una forza interiore che è più grande
di noi e che va al di là di tutte le difficoltà. Dio si manifesta spesso in maniera sorprendente.
Tante volte succede che qualcosa ci fa soffrire molto, ma tutto si svolge nel silenzio, senza
capire minimamente che cosa sta succedendo e che cosa possa significare. Forse solo dopo
tanto tempo, quando il tempo ha già fatto calmare i dolori e le lotte interiori, la persona smette
anche di cercare le spiegazioni, perché ormai non ce n’è più bisogno. Spesso è proprio il
tormento il ponte che ci fa fare certi passaggi spirituali e alle volte è addirittura necessario,
anzi sarebbe pericoloso immaginarsi una vita senza lotte e senza tormenti, perché la persona
facilmente rischierebbe un atteggiamento di rassegnazione, che fa diminuire addirittura la
vigilanza spirituale. Un tale compiacimento potrebbe rappresentare un ostacolo di fronte alle
azioni dello Spirito Santo. San Paolo stesso ci dice che “è necessario attraversare molte
tribolazioni per entrare nel regno di Dio” (At 14,22), e Cristo ai discepoli di Emmaus ricorda:
“non bisognava che il Cristo sopportasse queste sofferenze?” (Lc 24,26). Dal momento in cui
aderiamo con fiducia, nel momento in cui crediamo che anche le tribolazioni sono necessarie,
possiamo benedire “Dio, Padre del Signore Gesù Cristo…, il quale ci consola in ogni nostra
tribolazione perché possiamo anche noi consolare quelli che si trovano in qualsiasi genere di
afflizione con la consolazione con cui siamo consolati noi stessi da Dio” (2Cor 1,3).
19. Il colloquio spirituale prepara anche alla morte, alla vita eterna, perché la morte non tronca
le relazioni. Non è un caso che anche sant’Ignazio di Loyola consiglia di aver presente sempre
il momento della morte per poter vivere per le cose essenziali. “Padre Cleopa era solito dire
che la più grande saggezza che protegge l’uomo da tutto il peccato e lo conduce in paradiso,
alla felicità eterna, è la morte e la meditazione della morte. E avere sempre nella mente e nel
cuore la preghiera di Gesù”.
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E anche gli antichi Padri spesso dicevano che bisogna pregare
per l’ultima ora. Pensare alla morte non significa pensare ai funerali, e vedere come tutti
piangono, come nei funerali tutti pensano che sia morta una grande persona della quale si
ricorderanno per sempre. Non è questo. Prendiamo l’esempio di una mamma che sta a casa,
ed è preoccupata di tante cose, come pagare i conti, come sistemare l’ambiente, come…, e le
arriva una telefonata: “tuo figlio ha avuto un incidente ed è molto grave”. In quell’istante
spariscono tutte le preoccupazioni, l’unico pensiero che conta è come far vincere la vita.
Quindi, il pensiero della morte è quel momento della vita che mi fa filtrare ogni esperienza e mi
aiuta a non dimenticare le cose più importanti, essenziali della vita, con il loro peso spirituale.
Quando facciamo l’esperienza di stare con qualcuno che è sul letto di morte, i nostri pensieri,
sentimenti, progetti ecc. scendono automaticamente al piano inferiore. Questi momenti ci
purificano, ci liberano dal superfluo. Quindi anche pensare alla nostra morte – che non si sa
quando arriverà, ma siamo solo certi che un giorno di sicuro arriverà –, ci aiuta a distinguere e
a discernere ciò che è importante da ciò che è meno importante, per cosa combattere e che
cosa bisogna lasciar perdere, perché sappiamo che ogni cosa è niente di fronte alla morte.
Anche il consiglio che padre Cleopa dava più frequentemente sia ai monaci che ai laici era
questo: “Se volete andare avanti fino a Dio, avete bisogno di due muri, ma non muri fatti di
mattoni, non muri fatti di pietre, di terra, ma di due muri spirituali: abbiate il timore di Dio
nella mano destra, perché il profeta Daniele dice: ‘con il timore di Dio l’uomo è stornato dal
male’, e nella mano sinistra abbiate il timore della morte, perché dice il figlio di Sirach: ‘figlio,
ricorda la tua fine e non peccherai’. Queste due opere buone, cioè il timore di Dio e la
meditazione della morte salvano l’uomo da ogni peccato”.
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Ecco la migliore preparazione per
la morte: non la paura per essa, ma il timore, per trovarmi sempre preparato. Porto un altro
esempio di padre Cleopa da cui si vede come la morte non tronca i rapporti, ma anzi rafforza la capacità di aiuto spirituale: un mese prima della sua morte, diceva a una donna: “Sorella,
quando verrai di nuovo a Sihastria, vieni alla croce nel cimitero e dimmi ogni cosa che hai da
dirmi e, se Dio vuole, io ti ascolterò e ti aiuterò”.
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Inoltre possiamo ricordarci dell’esempio di Dostoevskij, uno tra i più grandi scrittori russi. Sua
figlia racconta che suo padre, “nel momento di dare l’ultima benedizione ai suoi figli ha chiesto
di leggere la parabola del figlio prodigo. Su questa sintesi evangelica del destino di ogni uomo
e della sua fede radiosa egli ha preso congedo: ricordatevi sempre il perdono del padre e la
sua gioia di perdonare”.
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Dostoevskij ha saputo cogliere l’essenziale della vita, che si ritrova
nel perdono, nel sacramento che trasforma la sterilità nella fecondità. Questo è ciò che conta
nel momento della morte: perdonarci, come il Padre ha perdonato il figlio prodigo e lo ha
abbracciato con amore misericordioso.