sabato 10 agosto 2013

E’ evidente l’amore di Dio per noi, ma alla comprensione di esso è possibile arrivare solo attraverso il silenzio; è Lui che ci invita a rimanere in silenzio


Marina Štremfelj 
Centro Aletti 
Il colloquio spirituale è un’arte che prende le dimensioni e i colori della 
sapienza dell’ascolto e della comunicazione
IL COLLOQUIO SPIRITUALE dovrebbe favorire…: 
  
b) IL SILENZIO 
Nella vita spirituale bisognerebbe, con tanta umiltà, mettersi in ginocchio e dire:
Parla, Signore, perché il tuo servo ti ascolta (cf 1Sam 3,9).
Ma per questo è necessario il silenzio esteriore e interiore
per poter essere aperti alla voce del Signore,
per poter dare la precedenza a Dio.
In un certo senso il silenzio significa la passività, 
però proprio
questa passività è la condizione fondamentale per raggiungere un’attività autentica,
dalla quale prendono il vero significato anche tante altre cose della nostra vita, come ad esempio
l’attesa,
il fallimento,
il sacrificio,
la malattia,
la sofferenza,
la pazienza,
l’accettazione di lasciarsi dire e lasciarsi fare... 
In questo modo, nella persona, il cuore si predispone per ricevere Dio e riflettere sulla vita eterna. Infatti la buona terra sono coloro che, dopo aver ascoltato la parola, la custodiscono in un cuore puro e in silenzio producono frutto.   
E’ il silenzio interiore che ci permette di ascoltare Dio e
nello stesso tempo ci rende capaci di ascoltare il mondo e saperne riconoscere le grida,
per le quali anche il Signore ha detto a Mosè:
 “ho osservato la miseria del mio popolo in Egitto e ho udito il suo grido…, conosco infatti le sue sofferenze” (Es 3,7).
Solo la persona che si intende del silenzio interiore si intende anche della voce di Dio, sa ascoltare Dio e sa ascoltare il mondo. Perché è Dio che le fa ascoltare il mondo e le parla della sofferenza del mondo.
Se la persona non vive il silenzio interiore, ma cerca solo di capire il mondo, sarà indaffaratissima sempre:
un attivista, un pastoralista nel senso deteriore del termine. 
Il colloquio spirituale dovrebbe quindi favorire il silenzio interiore,
affinché possiamo capire la voce di Dio.
E’ una voce da non trascurare mai.
E’ evidente l’amore di Dio per noi, ma alla comprensione di esso è possibile arrivare solo attraverso il silenzio; è Lui che ci invita a rimanere in silenzio.
Ogni intervento di Dio, ogni  azione di Dio è in effetti un invito alla interiorizzazione attraverso il silenzio.
Solo così si può fare il passaggio dall’apparenza delle cose e delle persone, alla quale spesso si dà assoluta importanza, a ciò che è nascosto, a ciò che non si vede, non si sente e non si può toccare.
L’udito esterno si fa strada verso l’udito interiore e
l’occhio esterno si fa strada verso l’orecchio interiore e,
in fine, dalla riflessione si arriva alla contemplazione,
che è la visione per eccellenza,
che non smette mai di stupirsi e
di cercare Dio in ogni cosa.
Su questo cammino ogni evento, ogni intervento di Dio,
 è prima di tutto un invito a rimanere in silenzio.
Ed è vero, quando ci troviamo davanti a una cosa bella, prima di tutto stiamo zitti.
O quando ci troviamo davanti ad una grande sofferenza, 
non è la parola la prima reazione, ma il silenzio.
Nei funerali ad esempio, si parla poco, ma ciò che  si dice è sensato, molto riflettuto, sono molto pesate le parole.
E deve essere così.  
La persona che sa essere da sola è capace di vivere relazioni non possessive.
Se invece la persona non sa vivere da sola, in questo silenzio,
avrà delle relazioni prevalentemente possessive delle persone,
nelle relazione diventerà esclusiva. 

venerdì 9 agosto 2013

il trucco del Nemico sta proprio in questo “lo penso io” e che credere fermamente ad un pensiero del genere vorrà dire ben presto realizzarlo, perché la persona diventa ciò a cui crede


Marina Štremfelj 
Centro Aletti 
Il colloquio spirituale è un’arte che prende le dimensioni e i colori della 
sapienza dell’ascolto e della comunicazione
IL COLLOQUIO SPIRITUALE dovrebbe favorire…:

a) LA SOLITUDINE
Per quanto riguarda la solitudine, bisogna saper distinguere
la solitudine psicologica dalla solitudine spirituale.
La solitudine psicologica ci isola dagli altri, ci porta alla chiusura ed è molto pesante o addirittura distruttiva, in quanto spesso impregnata dal pensiero che nessuno ci vuole bene, nessuno si interessa di noi, per nessuno siamo preziosi. Ecco il vero problema della solitudine psicologica. Facciamo l’esempio di una suora venuta per un colloquio. Le chiediamo se vuole dire qualcosa e, dopo 10 minuti di silenzio, dice: “Nessuno mi vuole bene nella comunità”. La guida replica: “Ma tu qualche volta leggi la Sacra Scrittura?” “Certo!”, “Aiutami allora a capire quale profeta dice questa parola, o in quale vangelo è scritto questo pensiero: nessuno mi vuole bene...” “No, non è scritto nella Bibbia, lo penso io.” Si tratta allora di farle capire che il trucco del Nemico sta proprio in questo “lo penso io” e che credere fermamente ad un pensiero del genere vorrà dire ben presto realizzarlo, perché la persona diventa ciò a cui crede.
E, se si comincia a comportarsi con gli altri a partire da questo pensiero a cui si crede,
in quanto il pensiero a cui crediamo ci forma,
creeremo delle realtà corrispondenti a questo pensiero che porta alla disperazione.  
Invece la solitudine spirituale segue i pensieri che aprono il cuore, che hanno a che fare con la 
vita.
Rosmini dice per se stesso: “la solitudine mi è cara, perché immerge in profondi pensieri, e ci fa creare d’intorno una società migliore che gli uomini. Tuttavia non sono già questi monti, e queste valli, e questa pace e questo silenzio che posseggono il mio cuore. I luoghi materiali sono troppo angusti per noi, il nostro luogo è Dio. Ah! In quel luogo possiamo ben stare adagiati, ma quanto è stretta la via che porta alla vita! L’ampiezza infinita, ove si dilata infinitamente il gaudio del cuore, viene dopo la strettezza.” A. ROSMINI, Calendario spirituale,  a cura di Giorgio Versini, Stresa 2007, p. 23
  
Ecco il luogo della solitudine spirituale – il nostro cuore – e non i luoghi esterni alla nostra realtà. Ma, una volta scoperta la ricchezza della solitudine spirituale nel cuore,
allora si sapranno apprezzare anche la montagna, la natura, la bellezza dei fiori.
E nella solitudine c’è un silenzio che ci fa esclamare:
“ecco il luogo di Dio, ecco la casa di Dio”.
E, nella casa di Dio, Dio parla. 

giovedì 8 agosto 2013

la guida, mentre ascolta, sta sensibilizzando anche l’orecchio della persona accompagnata, perché questa, mentre parla, automaticamente ascolta se stessa e diventa sempre più capace di sentire e di capire cosa sta dicendo.


Marina Štremfelj 
Centro Aletti 
Il colloquio spirituale è un’arte che prende le dimensioni e i colori della 
sapienza dell’ascolto e della comunicazione
IL COLLOQUIO SPIRITUALE dovrebbe favorire…: 

2. Il colloquio spirituale dovrebbe favorire, prima di tutto
l’apertura del cuore, l’ascolto reciproco e la disponibilità interiore come atteggiamento di fondo.
Ed è questo che aiuta a sensibilizzare nella persona l’apertura dell’orecchio interiore per essere capace di riconoscere e comprendere la voce di Dio nel proprio cuore.
Possiamo fare il riferimento alle parole di p. Rupnik, che parla da un artista mosaicista:
“bisogna ascoltare la pietra, sentirla e vedere dove essa suggerisce di aprirla, non si deve colpire con violenza non si deve imporre la nostra volontà sulla pietra dove noi vogliamo che si apra  perché così la pietra si chiude come un riccio, ma se la apri lì dove lei suggerisce allora rimarrai stupito della meraviglia dei colori che nasconde dentro, cristallini e allora prendi un’altra, una terza, una quarta e poi li metti insieme e nasce un mosaico.”
Che significa?
L’ascolto dovrebbe favorire l’apertura interiore.
Per questo l’accompagnatore dovrebbe all’inizio sottomettersi alla persona, perché si riveli di sua libera scelta.
Bisogna lasciare libera la persona di parlare, non la possiamo fermare, né bloccare, né ostacolare, ma 
lasciarla aprire. 
Nello stesso momento la guida, mentre ascolta, sta  sensibilizzando anche l’orecchio della persona accompagnata, perché questa, mentre parla,  automaticamente ascolta se stessa e diventa sempre più capace di sentire e di capire cosa sta dicendo.
Può capitare molte volte che la persona, dopo aver parlato, facendole la domanda:
“ma ti sei sentita?”, risponda:
“Sì, ma solo adesso che mi sono espressa, mi sono resa conto di ciò che penso e …”.
In questo contesto, potrebbe essere molto utile la ripresa sintetica dell’accompagnatore,
dopo aver 
ascoltato la persona con le parole:
“se ho capito bene, tu volevi dire questo e questo…”,
il che sarebbe un altro modo di favorire nella persona l’ascolto di sé.  
E’ molto importante nel colloquio spirituale saper ascoltare,
saper individuare e capire
da quale fonte provengano certi pensieri e
che cosa si vuole raggiungere.  
In questo cammino di ascolto e di apertura subentra la necessità di saper affrontare ed
accettare il progresso che passa per la solitudine, il silenzio e il deserto.  
Passando per queste tre cose, si cresce,
anche se bisogna passare la logica cristica, pasquale. 
Si tratta di prove,
ma come la mamma quando partorisce sta male,
quando arriva il bambino, sente una ricompensa talmente grande
che, per amore suo, accetta di soffrire. 
Allora, la solitudine, il silenzio e il deserto
hanno tanti elementi in comune e spesso si vivono in profondo collegamento.
Anche se in un periodo sarà
più sottolineato il silenzio,
in un altro la solitudine e
nell’altro il deserto,
comunque questi momenti si intrecciano prima o poi. 

mercoledì 7 agosto 2013

soprattutto aiuta ad integrare anche i momenti di vita spezzati, rotti, vissuti male, da pagani.


Marina Štremfelj 
Centro Aletti 
Il colloquio spirituale è un’arte che prende le dimensioni e i colori della 
sapienza dell’ascolto e della comunicazione
IL COLLOQUIO SPIRITUALE dovrebbe favorire…: 

1. Quanto più il colloquio spirituale favorisce la totalità è l’integrità della persona, 
tanto più questa sta diventando spirituale. 
Ogni persona è creata ad immagine di Dio, non solo in una sua particella. 
Tutto vi è incluso. 
“Non è mai possibile separare da una parte solo il corporeo e dall’altra solo lo spirituale. 
Entrambi si compenetrano, proprio nella reciproca distinzione… 
la corporeità è un’immagine dell’uomo, 
ma l’uomo è al  tempo stesso più di quanto la sua 
corporeità lasci trasparire… 
si coglie l’uomo nel suo essere creatura di fronte a Dio, nel suo 
essere figlio di Dio. E là – solo là – si fa chiaramente visibile lo spirituale.”
 J. SUDBRACK,  Direzione spirituale , cit., pp. 26-7.  
Dal punto di vista del mondo, il colloquio spirituale può sembrare una cosa ideale e astratta. 
Si rischia di dire che la persona diminuisce e non conta niente. 
Ma si deve far capire al discepolo che il colloquio spirituale favorisce l’integrità non solo delle cose sacrosante che lo fanno diventare “devoto”, 
ma soprattutto aiuta ad integrare anche i momenti di vita spezzati, rotti, vissuti male, da pagani. Anche questo fa parte della totalità della persona, 
anche la sua vita passata con momenti brutti e belli, difficili e facili, peccaminosi e amorevoli, tutti
Il colloquio spirituale dovrebbe favorire l’accettazione di tutta la storia della persona, 
trovando il valore della storia, 
malgrado il fatto che a certe esperienze si è arrivati, purtroppo, attraverso il peccato. 
Se il colloquio spirituale non favorisce questo, 
porta automaticamente ad una doppia vita. 
L’integrità viene fatta quindi 
grazie alla Parola, 
grazie alla parte verginale della persona, 
grazie alla parte ‘mariana’ delle persona, 
l’unica capace  di dire di sì e di accogliere la luce, la vita nuova. 
Da questa convinzione potrà essere messa anche nella mangiatoia, 
nella parte peccaminosa, disintegrata della persona.  
Tramite l’aiuto spirituale, 
la persona comincia quindi ad intravedere tutta la sua vita spezzata, 
raccolta in un immenso, caldo cuore. 
Comincia a intravedere anche una sua nuova immagine, 
vista da Dio nell’insieme, nell’integrità, 
realtà tipica della mente illuminata dall’amore. 
E cambiano la mentalità, il comportamento, le abitudini, 
perché si scopre di essere amati e la realtà di vita tutta intera 
viene assunta da una Persona, il Dio-Padre-Amore 
che sana, lava, cura, guarisce e tutto porta ad una trasfigurazione nella risurrezione. 
E’ davvero importante favorire l’accettazione di se stessi per trovare la pace, 
affinché ci sentiamo figli di Dio – dono di Dio, e per questo di grande valore. 
E’ importante accettare la storia passata con tutto ciò che comporta, 
perché tutto concorre al bene per coloro che amano Dio (cf Rm 8). 
Chi di noi non ha vissuto nella vita passata qualche momento in cui era terra screpolata, in cui le ossa si sono rotte? 
E’ proprio il colloquio spirituale che può far rivivere queste ossa dimenticate favorendo la Luce che illumina, riscalda e ammorbidisce e bagna di rugiada la terra screpolata. 

martedì 6 agosto 2013

Dunque il padre spirituale è colui che aiuta e favorisce l’incontro esistenziale tra l’uomo e Dio nelle diverse dimensioni spirituali.


Marina Štremfelj 
Centro Aletti 
Il colloquio spirituale è un’arte che prende le dimensioni e i colori della 
sapienza dell’ascolto e della comunicazione
IL COLLOQUIO SPIRITUALE dovrebbe favorire…: 

All’interno dell’accompagnamento spirituale, 
il colloquio spirituale rappresenta il luogo privilegiato
per la vera conoscenza di Dio e dell’uomo stesso, 
nel quale si dischiude di nuovo la possibilità di 
sperimentare 
una relazione sana, autentica, 
dove ci sentiamo integralmente accolti, riconosciuti, 
considerati ed aiutati ad uscire da se stessi, 
affinché non viviamo più per noi stessi, 
ma per Colui 
che è morto e risorto per noi. 
Dunque il padre spirituale è colui 
che aiuta e favorisce l’incontro 
esistenziale tra l’uomo e Dio nelle diverse dimensioni spirituali.  

1. Quanto più il colloquio spirituale favorisce la totalità è l’integrità della persona, tanto più 
questa sta diventando spirituale. Ogni persona è creata ad immagine di Dio, non solo in una 
sua particella. Tutto vi è incluso. “Non è mai possibile separare da una parte solo il corporeo e 
dall’altra solo lo spirituale. Entrambi si compenetrano, proprio nella reciproca distinzione… la 
corporeità è un’immagine dell’uomo, ma l’uomo è al  tempo stesso più di quanto la sua 
corporeità lasci trasparire… si coglie l’uomo nel suo essere creatura di fronte a Dio, nel suo 
essere figlio di Dio. E là – solo là – si fa chiaramente visibile lo spirituale.”
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Dal punto di vista del mondo, il colloquio spirituale può sembrare una cosa ideale e astratta. Si 
rischia di dire che la persona diminuisce e non conta niente. Ma si deve far capire al discepolo 
che il colloquio spirituale favorisce l’integrità non solo delle cose sacrosante che lo fanno 
diventare “devoto”, ma soprattutto aiuta ad integrare anche i momenti di vita spezzati, rotti, 
vissuti male, da pagani. Anche questo fa parte della totalità della persona, anche la sua vita 
passata con momenti brutti e belli, difficili e facili, peccaminosi e amorevoli, tutti
Il colloquio spirituale dovrebbe favorire l’accettazione di tutta la storia della persona, trovando 
il valore della storia, malgrado il fatto che a certe esperienze si è arrivati, purtroppo, 
attraverso il peccato. 
Se il colloquio spirituale non favorisce questo, porta automaticamente ad una doppia vita. 
L’integrità viene fatta quindi grazie alla Parola, grazie alla parte verginale della persona, grazie 
alla parte ‘mariana’ delle persona, l’unica capace  di dire di sì e di accogliere la luce, la vita 
nuova. Da questa convinzione potrà essere messa anche nella mangiatoia, nella parte 
peccaminosa, disintegrata della persona.  
Tramite l’aiuto spirituale, la persona comincia quindi ad intravedere tutta la sua vita spezzata, 
raccolta in un immenso, caldo cuore. Comincia a intravedere anche una sua nuova immagine, 
vista da Dio nell’insieme, nell’integrità, realtà tipica della mente illuminata dall’amore. E cambiano
la mentalità, il comportamento, le abitudini, perché si scopre di essere amati e la realtà di vita 
tutta intera viene assunta da una Persona, il Dio-Padre-Amore che sana, lava, cura, guarisce e 
tutto porta ad una trasfigurazione nella risurrezione. E’ davvero importante favorire l’accettazione 
di se stessi per trovare la pace, affinché ci sentiamo figli di Dio – dono di Dio, e per questo di 
grande valore. E’ importante accettare la storia passata con tutto ciò che comporta, perché 
tutto concorre al bene per coloro che amano Dio (cf Rm 8). Chi di noi non ha vissuto nella vita 
passata qualche momento in cui era terra screpolata, in cui le ossa si sono rotte? E’ proprio il 
colloquio spirituale che può far rivivere queste ossa dimenticate favorendo la Luce che illumina, 
riscalda e ammorbidisce e bagna di rugiada la terra screpolata. 
2. Il colloquio spirituale dovrebbe favorire, prima di tutto l’apertura del cuore, l’ascolto 
reciproco e la disponibilità interiore come atteggiamento di fondo. Ed è questo che aiuta a 
sensibilizzare nella persona l’apertura dell’orecchio interiore per essere capace di riconoscere e 
comprendere la voce di Dio nel proprio cuore. Possiamo fare il riferimento alle parole di p. 
Rupnik, che parla da un artista mosaicista: “bisogna ascoltare la pietra, sentirla e vedere dove 
essa suggerisce di aprirla, non si deve colpire con violenza non si deve imporre la nostra 
volontà sulla pietra dove noi vogliamo che si apra  perché così la pietra si chiude come un 
riccio, ma se la apri lì dove lei suggerisce allora rimarrai stupito della meraviglia dei colori che 
nasconde dentro, cristallini e allora prendi un’altra, una terza, una quarta e poi li metti insieme 
e nasce un mosaico.”
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Che significa? L’ascolto dovrebbe favorire l’apertura interiore. Per questo l’accompagnatore 
dovrebbe all’inizio sottomettersi alla persona, perché si riveli di sua libera scelta. Bisogna 
lasciare libera la persona di parlare, non la possiamo fermare, né bloccare, né ostacolare, ma 
lasciarla aprire. 
Nello stesso momento la guida, mentre ascolta, sta  sensibilizzando anche l’orecchio della 
persona accompagnata, perché questa, mentre parla,  automaticamente ascolta se stessa e 
diventa sempre più capace di sentire e di capire cosa sta dicendo. Può capitare molte volte che 
la persona, dopo aver parlato, facendole la domanda: “ma ti sei sentita?”, risponda: “Sì, ma 
solo adesso che mi sono espressa, mi sono resa conto di ciò che penso e …”. In questo 
contesto, potrebbe essere molto utile la ripresa sintetica dell’accompagnatore, dopo aver 
ascoltato la persona con le parole: “se ho capito bene, tu volevi dire questo e questo…”, il che 
sarebbe un altro modo di favorire nella persona l’ascolto di sé.  
E’ molto importante nel colloquio spirituale saper ascoltare, saper individuare e capire da quale 
fonte provengano certi pensieri e che cosa si vuole raggiungere.  
In questo cammino di ascolto e di apertura subentra la necessità di saper affrontare ed 
accettare il progresso che passa per la solitudine, il silenzio e il deserto.  
Passando per queste tre cose, si cresce, anche se bisogna passare la logica cristica, pasquale. 
Si tratta di prove, ma come la mamma quando partorisce sta male, quando arriva il bambino, 
sente una ricompensa talmente grande che, per amore suo, accetta di soffrire. 
Allora, la solitudine, il silenzio e il deserto hanno tanti elementi in comune e spesso si vivono in 
profondo collegamento. Anche se in un periodo sarà più sottolineato il silenzio, in un altro la 
solitudine e nell’altro il deserto, comunque questi momenti si intrecciano prima o poi. 
a) LA SOLITUDINE
Per quanto riguarda la solitudine, bisogna saper distinguere la solitudine psicologica dalla 
solitudine spirituale. La solitudine psicologica ci isola dagli altri, ci porta alla chiusura ed è 
molto pesante o addirittura distruttiva, in quanto spesso impregnata dal pensiero che nessuno 
ci vuole bene, nessuno si interessa di noi, per nessuno siamo preziosi. Ecco il vero problema 
della solitudine psicologica. Facciamo l’esempio di una suora venuta per un colloquio. Le 
chiediamo se vuole dire qualcosa e, dopo 10 minuti di silenzio, dice: “Nessuno mi vuole bene 
nella comunità”. La guida replica: “Ma tu qualche volta leggi la Sacra Scrittura?” “Certo!”, 
“Aiutami allora a capire quale profeta dice questa parola, o in quale vangelo è scritto questo 
pensiero: nessuno mi vuole bene...” “No, non è scritto nella Bibbia, lo penso io.” Si tratta allora 
di farle capire che il trucco del Nemico sta proprio in questo “lo penso io” e che credere 
fermamente ad un pensiero del genere vorrà dire ben presto realizzarlo, perché la persona 
diventa ciò a cui crede. E, se si comincia a comportarsi con gli altri a partire da questo 
pensiero a cui si crede, in quanto il pensiero a cui crediamo ci forma, creeremo delle realtà 
corrispondenti a questo pensiero che porta alla disperazione.  
Invece la solitudine spirituale segue i pensieri che aprono il cuore, che hanno a che fare con la 
vita. Rosmini dice per se stesso: “la solitudine mi è cara, perché immerge in profondi pensieri, 
e ci fa creare d’intorno una società migliore che gli uomini. Tuttavia non sono già questi monti, 
e queste valli, e questa pace e questo silenzio che posseggono il mio cuore. I luoghi materiali 
sono troppo angusti per noi, il nostro luogo è Dio. Ah! In quel luogo possiamo ben stare 
adagiati, ma quanto è stretta la via che porta alla vita! L’ampiezza infinita, ove si dilata 
infinitamente il gaudio del cuore, viene dopo la strettezza.”
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Ecco il luogo della solitudine spirituale – il nostro cuore – e non i luoghi esterni alla nostra 
realtà. Ma, una volta scoperta la ricchezza della solitudine spirituale nel cuore, allora si 
sapranno apprezzare anche la montagna, la natura, la bellezza dei fiori. E nella solitudine c’è 
un silenzio che ci fa esclamare: “ecco il luogo di Dio, ecco la casa di Dio”. E, nella casa di Dio, 
Dio parla. 
  
b) IL SILENZIO 
Nella vita spirituale bisognerebbe, con tanta umiltà, mettersi in ginocchio e dire: Parla, 
Signore, perché il tuo servo ti ascolta (cf 1Sam 3,9). Ma per questo è necessario il silenzio 
esteriore e interiore per poter essere aperti alla voce del Signore, per poter dare la precedenza 
a Dio. In un certo senso il silenzio significa la passività, però proprio questa passività è la 
condizione fondamentale per raggiungere un’attività autentica, dalla quale prendono il vero 
significato anche tante altre cose della nostra vita, come ad esempio l’attesa, il fallimento, il 
sacrificio, la malattia, la sofferenza, la pazienza, l’accettazione di lasciarsi dire e lasciarsi fare... 
In questo modo, nella persona, il cuore si predispone per ricevere Dio e riflettere sulla vita 
eterna. Infatti la buona terra sono coloro che, dopo aver ascoltato la parola, la custodiscono in 
un cuore puro e in silenzio producono frutto.   
E’ il silenzio interiore che ci permette di ascoltare Dio e nello stesso tempo ci rende capaci di 
ascoltare il mondo e saperne riconoscere le grida,  per le quali anche il Signore ha detto a 
Mosè:  “ho osservato la miseria del mio popolo in Egitto e ho udito il suo grido…, conosco 
infatti le sue sofferenze” (Es 3,7). Solo la persona che si intende del silenzio interiore si 
intende anche della voce di Dio, sa ascoltare Dio e sa ascoltare il mondo. Perché è Dio che le fa 
ascoltare il mondo e le parla della sofferenza del mondo. Se la persona non vive il silenzio 
interiore, ma cerca solo di capire il mondo, sarà indaffaratissima sempre: un attivista, un 
pastoralista nel senso deteriore del termine. 
Il colloquio spirituale dovrebbe quindi favorire il silenzio interiore, affinché possiamo capire la 
voce di Dio. E’ una voce da non trascurare mai. E’ evidente l’amore di Dio per noi, ma alla 
comprensione di esso è possibile arrivare solo attraverso il silenzio; è Lui che ci invita a 
rimanere in silenzio. Ogni intervento di Dio, ogni  azione di Dio è in effetti un invito alla 
interiorizzazione attraverso il silenzio. Solo così si può fare il passaggio dall’apparenza delle 
cose e delle persone, alla quale spesso si dà assoluta importanza, a ciò che è nascosto, a ciò 
che non si vede, non si sente e non si può toccare. L’udito esterno si fa strada verso l’udito 
interiore e l’occhio esterno si fa strada verso l’orecchio interiore e, in fine, dalla riflessione si 
arriva alla contemplazione, che è la visione per eccellenza, che non smette mai di stupirsi e di cercare Dio in ogni cosa. Su questo cammino ogni evento, ogni intervento di Dio, è prima di 
tutto un invito a rimanere in silenzio.  
Ed è vero, quando ci troviamo davanti a una cosa bella, prima di tutto stiamo zitti. O quando ci 
troviamo davanti ad una grande sofferenza, non è la parola la prima reazione, ma il silenzio. 
Nei funerali ad esempio, si parla poco, ma ciò che  si dice è sensato, molto riflettuto, sono 
molto pesate le parole. E deve essere così.  
La persona che sa essere da sola è capace di vivere relazioni non possessive. Se invece la 
persona non sa vivere da sola, in questo silenzio,  avrà delle relazioni prevalentemente 
possessive delle persone, nelle relazione diventerà esclusiva. 
c) IL DESERTO 
Dopo 16 anni di solitudine nel bosco, quando Serafino di Sarov torna in mezzo alla gente, trova 
una fila incredibile di persone che vogliono parlare con lui. Un teologo gli dice: “Come mai tu, 
che non hai studiato niente, hai tanta gente che ti viene a chiedere un consiglio spirituale”? 
Nella solitudine, nel silenzio, nel deserto, la persona trova la possibilità di una purificazione 
profonda e quindi diventa luce. E, quando uno è così purificato, trasparente, la luce con facilità 
passa e scalda e può arrivare anche agli altri. Le persone come Serafino sono persone di luce, 
hanno sempre qualche parola calorosa da dire a chi vive nel buio, nel dolore. E Serafino stesso 
diceva che la strada più cara alla tradizione monastica è quella “strada che guida l’uomo verso la 
deificazione per mezzo del deserto.”
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 Il deserto è per lui una occasione straordinaria per la 
persona che si deifica, santifica, divinizza, perché trova veramente la possibilità di rivestirti di 
Dio, in quanto nel deserto non trova altri appoggi, se non Dio, e non cerca altro di essenziale 
per la vita. Allora il deserto è quel luogo inabitato, non coltivato, dove è impossibile contare 
sulle proprie forze. Perciò dice Filerete di Mosca: “beato il deserto nel quale si ode una voce 
tanto desiderata. Beata la voce per mezzo della quale fu annunciato l’avvento del Signore! 
Perché se si comanda di preparare la via del Signore non è lontano e desidera visitarci… Che 
cosa è il deserto secondo il concetto degli uomini comuni, per l’occhio sensibile? Un luogo che 
non è abitato né coltivato dagli uomini anche se è  pieno di animali selvaggi e altri esseri 
viventi. Allora possiamo capire che cosa significa  il deserto per lo sguardo spirituale, per 
l’occhio di Dio. Una volta che le passioni, appartenenti alla natura delle bestie, e i desideri 
brutali hanno invaso l’uomo, scacciano da lui ogni pensiero spirituale, ogni desiderio puro, ogni 
specie di bene e, per così dire, devastano il nobile dominio della sua natura, che cosa diventa 
allora la sua anima se non un deserto selvaggio?... E’ forse in questo deserto sconvolto, 
desolato, impenetrabile che si fa strada la voce del Signore della gloria e della magnificenza? 
Esce lui forse dai tabernacoli beati del cielo e va a visitare la terra devastata dal peccato e 
dalla maledizione?”
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Ma il deserto ha due facce; oltre ad essere il luogo della Parola di Dio, è anche il luogo delle 
bestie selvatiche, che si presentano nella forma di pensieri e sentimenti cattivi, passionali, 
brutti e selvatici, che possono provocare anche tanta paura. Ecco perché il Cardinal Špidlík dice 
che di per sé non stanca il lavoro, ma i pensieri e sentimenti cattivi. La parte selvatica del 
deserto, la parte più difficile del deserto desolato può anche far nascere nella persona il 
profondo desiderio, la profonda necessità di aprirsi a un altro pensiero, a una voce diversa che 
non fa paura, ma che pacifica, santifica. Infatti bisogna avere tanta sete della voce di Dio. E 
questa voce di Dio esce dai tabernacoli ed entra nel deserto, perché la casa del Signore è lì 
dove nasce il desiderio di Dio. Nel deserto, quando nasce questo desiderio, il Signore si sente a 
casa, perché è il desiderio più conforme a Dio e più autentico nel senso spirituale. San 
Girolamo afferma, a partire da questa esperienza, che il deserto è “la terra promessa che fa 
germogliare i fiori di Cristo.”
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3. Il colloquio spirituale dovrebbe favorire la fiducia, la fede e la libertà reciproca, perché è 
possibile realizzarlo soltanto sulla “base della fiducia e consiste perciò, non da ultimo, in un 
atteggiamento fiducioso tra le due persone.”
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 Il compito dell’accompagnamento spirituale è di guidare la persona verso questa fiducia che però dovrebbe passare dalla fiducia interpersonale 
alla fiducia in Dio. 
Non si tratta dunque primariamente della fiducia tra due persone, ma di arrivare alla fiducia in 
Dio e nella sua Provvidenza. Solo questa fiducia spirituale evita anche tanti problemi: che la 
persona si attacchi alla guida, che diventi dipendente. E’ importante la libertà reciproca, che 
previene il pericolo di scambiare la guida con Dio, e questo può avvenire quando la guida 
comincia a sentirsi molto importante per la salvezza dell’altra persona, oppure quando l’altra 
persona si attacca alla mano della guida, anziché alla grazia, passata tramite la mano della 
guida.  
A proposito della fiducia, anche santa Teresa di Lisieux afferma che “è la fiducia, che deve 
condurci all’Amore..., ma noi ci sforziamo d’andare a Dio con la fiducia e con qualcosa d’altro, 
cercando qualche appiglio, qualche segno, qualche garanzia. Ora, ciò che è proprio della fiducia 
è il non cercare altra cosa, il non appoggiarsi che sull’amore e la misericordia. Se si cerca Dio 
con la fiducia e con qualcosa di altro, in verità si smette di avere fiducia e si perde tutto.”
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 Ciò 
significa che non è tanto importante chiedersi continuamente si siamo perfetti, se siamo 
abbastanza bravi, buoni, forti, ma se siamo fiduciosi. Se noi non nutriamo una fiducia totale, 
conduciamo una vita a metà, che ci porta ad una grande disperazione, la quale può essere 
anche positiva se prende un esito buono. La disperazione non avviene perché “condannati da 
Dio, ma… condannati da noi stessi, vedendoci incapaci della fiducia che ci salverebbe. Bisogna 
passare per una tale disperazione attenuata, perché muoiano le radici orgogliose che ne sono 
all’origine…, perché la fiducia sbocci... L’orgoglio muore disperando.”
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Dopo aver sperimentato i frutti della fiducia, si guarisce anche da altre malattie, soprattutto 
delle paure. I santi sono testimoni che, con il fatto di crescere nella fiducia e nell’abbandono 
nelle mani di Dio, contemporaneamente vedevano diminuire in loro le varie paure di fronte alle 
prove, alla sofferenza, alla croce, alla morte. Prima o poi dobbiamo ammettere che, a 
prescindere dalle cose che facciamo, non potremo mai evitare le prove nella vita. Quindi è 
inevitabile pensare di non fare nella vita anche degli sbagli. Perciò è importante sapere che 
credere significa essere convinti che i misteri della fede hanno una forza che salva e fa 
progredire, malgrado i nostri peccati, malgrado gli sbagli che possiamo fare, malgrado il fatto 
che le cose che ci possono tormentare siano tante.  Con questa fede che ci apre a nuove 
visioni, cambia la prospettiva, cambia la luce, cambiano i colori. Infatti, quando si crede nella 
Provvidenza di Dio, malgrado gli sbagli, le cadute, la Provvidenza stessa ci farà progredire nella 
vita, ci farà andare avanti comunque. In una parola, ciò significa credere che “la tua fede ti ha 
salvato”, che ti ha salvato l’amore divino, nel quale hai creduto. Infatti, nessun bene è 
perfettamente conosciuto se non è perfettamente amato.  
4. Il colloquio spirituale dovrebbe favorire la spiritualità incarnata, l’integrazione della realtà di
vita quotidiana. Si tratta di quella spiritualità che ha a che fare con la persona nella vita 
quotidiana, 24 ore su 24. Parlando dell’integrità della persona, abbiamo parlato 
dell’integrazione della vita passata, ma la spiritualità incarnata è piuttosto legata alla vita 
presente, attuale, all’oggi, altrimenti si rischia di diventare delle persone nostalgiche, sempre 
orientate al passato. Ci sono infatti pochi sognatori del futuro, ma anche questo c’è. A noi 
invece interessa ciò che realmente e eternamente esiste, cioè quello che rientra nel volere di 
Dio. 
“Non chi dice Signore, Signore… ma colui che compie la volontà del mio Padre” (Mt 5,12), che 
si consuma nella Parola: “il Figlio dell’uomo infatti è venuto a cercare e a salvare ciò che era 
perduto” (Lc 19,10). Quindi, con la grazia di Dio,  è importante favorire la valorizzazione e 
l’accettazione spirituale della realtà quotidiana,  quella presente e non quella ideale. La vita 
reale di ogni giorno, tante volte, è fatta di fango, di rabbie, di male, di grazie e disgrazie, di 
tutto e di più. All’interno di questa visione, viene data alla persona la possibilità di accettare 
spiritualmente sia il successo che il fallimento, la malattia o la salute. La persona che è 
spirituale, nell’ottica dell’incarnazione, si fa pochi problemi che le cose, a prima vista, siano 
andate bene o male. Nella vita non dobbiamo dare il voto a ciò che facciamo, ma bisogna solo 
consegnarci e “non bisogna soprattutto provare di riuscire, ma accettare, al contrario, di vivere 
in una perpetua atmosfera di sconfitta. Appena si è fatto qualcosa, bene o male, la si offre e si volta pagina... e si finisce per offrire senza chiedersi neanche più se è bene o se è male”,
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 e 
l’offerta va fatta così, come è, senza cercare di “perfezionarla” prima di presentarla a Dio. “Chi 
si lava prima di presentarsi, vuol dire che non vuole dare tutto, ma vuole dare solo ciò che è 
bello. Ma Cristo desidera proprio ciò che è brutto... per guarirci. Non sono i sani che hanno 
bisogno del medico... (Mt 9,12-13). Le cose sono create per essere bruciate, polverizzate, 
gettate dalla finestra. Per un simile uso poco importa che siano belle o brutte: le ceneri 
saranno le stesse... Teresa del Bambin Gesù diceva a una sua sorella dopo un piccolo sacrificio 
oscuro: Ciò che hai fatto ora è più importante che se tu avessi ottenuto la restaurazione degli 
ordini religiosi in Francia! Facciamo fatica a crederlo…, è la lotta eterna fra lo spirito di Dio e lo
spirito umano che vorrebbe sempre costruire dimore definitive.”
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Ecco la vera fiducia nell’amore di Dio e non in noi stessi. 
5. Il colloquio spirituale dovrebbe favorire la sobrietà. 
Chi è sobrio? Chi riesce a mantenere la sobrietà spirituale? Prima di tutto bisogna dire che la 
sobrietà ha a che fare con l’equilibrio della persona integra, al quale si può giungere soltanto 
quando si conosce bene la meta che si vuole raggiungere nella vita.  
Il fatto che il colloquio spirituale debba favorire la sobrietà significa, concretamente, 
incoraggiare nei periodi difficili di prova ed esigere la calma nei periodi di grandi entusiasmi. 
Significa aiutare a far ordine nella vita e a tener conto del suo ritmo; favorire inoltre ad avere 
la mentalità, il modo di ragionare da ‘contadini’, che sanno mettere insieme tutto e trovare il 
giusto equilibrio nel tener conto della natura, del tempo, della temperatura, del ritmo della 
terra, delle proprie forze, ecc. E’ proprio tipico dello Spirito di Dio che vede tutto e tiene conto 
di tutto.  
Altrimenti si rischia di assomigliare a un cagnolino che continuamente corre dietro ad ogni cosa 
che si presenta. Ma la persona non può correre dietro ad ogni offerta che le viene fatta, dietro 
ad ogni frutto dell’albero che si presenta bello, desiderabile agli occhi e piacevole alla bocca. La 
sobrietà, spiritualmente parlando, non è indifferenza, ma un equilibrio interiore, è frutto di una 
vita che conosce bene la meta ma, nello stesso tempo, è la più grande forza nel raggiungere la 
meta, in quanto tale equilibrio è sempre in funzione di questa meta. Quindi la sobrietà diventa 
doppia forza nella vita interiore, perché tiene unito tutto in modo che la persona intera 
collabori nell’andare verso una direzione. E siccome la nostra meta è l’unione totale con 
l’amore divino, che è amore misericordioso, allora  possiamo parlare anche del cammino 
salvifico della persona, il quale ci aiuta a capire ancora di più quanto sia importante supplicare 
la grazia della sobrietà spirituale.   
Anche sant’Ignazio di Loyola ha scritto una regola  che aiuta moltissimo a mantenerci 
nell’equilibrio: “Chi è consolato pensi a umiliarsi e a ridimensionarsi quanto più potrà, 
pensando al poco che vale nel tempo della desolazione, senza quella grazia o consolazione. Al 
contrario chi sta nella desolazione, pensi che, con la grazia sufficiente, può molto per resistere 
a tutti i suoi nemici, prendendo forza dal suo Creatore e Signore.”
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 Nella vita è tanto facile 
lasciarsi guidare dai sentimenti. Quando il sentimento è bello, ci si eleva, quando è brutto, si 
cade giù e così si vivono sempre degli estremi. Non lasciarsi condizionare da questo: ecco la 
sobrietà della mente sana e anche biblica. Infatti oggi dicono: “Osanna, Osanna”, e domani: 
“Crocifiggilo!”. Questo è successo al Figlio di Dio.  
6. Il colloquio spirituale fa entrare nella comprensione del linguaggio spirituale, che include il 
linguaggio della promessa di Dio, della logica pasquale, del discernimento spirituale, dell’amore 
divino. Ogni parola ha il suo significato spirituale, per cui è importante un’intesa spirituale sui 
significati. E ogni parola spirituale ha una storia, che si carica della tradizione, della sapienza 
spirituale di chi ci ha preceduto e che può diventare un tesoro prezioso per noi. Per questo non 
si può fare a meno di cercare proprio dai Padri della tradizione un linguaggio spirituale che ci 
accomuna con loro e tra di noi. 
7. Il colloquio spirituale dovrebbe portare alla purificazione del cuore, aiutare a vincere le 
passioni nascoste, avendo la meglio sulle forze dell’egoismo. Se ci chiedessimo, perché noi così facilmente e così volentieri parliamo male degli altri? Forse è questa la risposta: unicamente 
perché prima noi abbiamo pensato male, perché ci siamo riempiti il capo di pregiudizi, perché 
ci siamo abituati a considerare le cose secondo i nostri desideri e interessi, le abitudini e 
passioni. Va detto ancora che sono proprio le passioni che suscitano giudizi falsi. Tanti Padri 
sono lì a ricordarci che a causa dell’orgoglio, siamo pronti a vedere il peccato degli altri, ma 
lenti a riconoscere i nostri, ed è proprio dal vincere questo atteggiamento che dipende la 
nostra vera crescita e maturità spirituale.  
Quindi il colloquio spirituale dovrebbe favorire nella persona accompagnata il riconoscimento 
dell’influsso del proprio ego, affinché il divino possa crescere in lei, e concludere come dice San 
Giovanni Battista: “Egli deve crescere e io diminuire” (Gv 3,30). Solo a questo scopo si fa la 
discesa nel cuore, per poter entrare nelle profondità di se stessi. La verifica del superamento 
del nostro ego e di tutte le nostre difficoltà sta in questo: se riesco ad ammettere il peccato o 
no; se percepisco il bisogno di essere purificato, perdonato dal Salvatore o no; se ammetto la 
mia fragilità, debolezza, malattia provocata dal peccato o no; se sento il bisogno di essere 
guarito dall’unico medico, cioè da Gesù Cristo, mio Signore, o no. Il peccato si comprende 
nell’ambito relazionale, che è anche l’ambito della salvezza, in cui la persona può sperimentare 
l’amore di Dio nel perdono. Solo Dio può perdonare i peccati (cf Lc 5,21). Le guarigioni operate 
da Cristo e narrate nel Vangelo hanno questa divina conclusione: “la tua fede ti ha salvato” (Lc 
7,50). Davvero la cosa più importante è dare la precedenza al principio della fede e dell’amore. 
Quando, con il perdono, Dio Padre rivolge di nuovo la parola all’uomo, questi riconosce il Padre 
e desidera di nuovo la figliolanza. Dio raggiunge l’uomo nel suo peccato rivolgendogli la parola, 
che è, allo stesso tempo, parola di perdono e chiamata. Si pensi alla vocazione di Pietro, che si 
incontra con lo sguardo misericordioso di Cristo nel momento del peccato. La conversione 
spirituale può essere vissuta solo direttamente in prima persona. C’è una sola visione beata, 
secondo un detto che avrà tanta fortuna negli ambienti monastici, quella del proprio peccato: 
“Chiesero a un anziano: ‘Come mai alcuni dicono di vedere gli angeli?’. Rispose: ‘Beato colui 
che vede sempre il proprio peccato’”.
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 Chi non fa l’esperienza del perdono dei propri peccati, 
di essere amato da Dio, non può annunciare l’amore  di Dio a nessuno e non può amare 
nessuno. “È un incontro nel quale l’uomo viene rigenerato… Il perdono dei peccati è 
un’esperienza totale che segna l’uomo in tutte le sue dimensioni”.
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 Convertirsi significa quindi 
scoprire in Cristo un’altra visione della vita, di se stessi e del mondo, cambiare così l’oggetto 
della propria attenzione: da un’idea alla Persona,  all’Amore. E, se cambia l’oggetto, cambia 
tutto, perché se fino ad ora si era vissuti solo per sé, d’ora in poi si vive tutto con Cristo, per 
Cristo e in Cristo.    
8. Il colloquio spirituale dovrebbe favorire la discesa nelle profondità del nostro essere tramite 
lo sviluppo nell’autenticità dei desideri. Lo sviluppo vuol dire che c’è un crescere, un andare 
avanti, un progredire, una maturazione.   
Che cosa desidera una bambina piccola? Una bambola, un po’ di affetto... E un neonato? 
Essere allattato, cambiato... Dopo però, crescendo, si sviluppano anche desideri che possono 
avere diversi fini che vogliono raggiungere, dai desideri soltanto della carne ai desideri dello 
Spirito. E nella terza età diventano sempre più essenzializzati, fondamentali... Ma, per arrivare 
a questo atteggiamento, c’è bisogno di una maturità spirituale. Quindi bisogna favorire la 
discesa nelle profondità del nostro essere. Più la  persona entra in profondità, più si 
approfondiscono e si convertono anche i suoi desideri. La Bibbia è piena del conflitto di tutte le 
forme del desiderio. Certo, non le approva tutte, e anche i desideri più puri devono passare 
una purificazione radicale, ma così prendono tutta  la loro forza e danno tutto il suo valore 
all’esistenza umana. Alla radice di tutti i desideri dell’uomo c’è la sua povertà radicale, e il suo 
bisogno fondamentale di possedere la vita nella sua pienezza e nel pieno sviluppo del suo 
essere. Proprio perché il desiderio è qualcosa di essenziale e di inestirpabile nell’uomo, può 
essere per lui una tentazione pericolosa e costante. Eva ha peccato perché ha ceduto al 
desiderio dell’albero (cf Gen 3,6) e, avendo ceduto a questo desiderio, diventa lei stessa 
vittima del desiderio che la porta verso suo marito e subirà il dominio dell’uomo (cf Gen 3,16). 
Nell’umanità, il peccato è come un desiderio selvaggio pronto a scatenarsi, che il Nuovo 
Testamento chiama “concupiscenza” (cf 1Gv 2,16, Gc  1,14s). Ogni desiderio ha una parte legata all’ego. Pertanto ha bisogno di essere convertito, di essere liberato dalla concupiscenza, 
per essere orientato alla relazione con Dio, polarizzando tutte le energie e dando la capacità di 
smascherare le illusioni e le contraffazioni. In questo processo ha una grande importanza 
l’attesa, che garantisce una feconda preparazione del terreno interiore per essere in grado di 
saper riconoscere i desideri da seguire rispetto alle concupiscenze. Per questo André Louf dice 
che il ruolo della guida sta “nell’aiuto cha ha apportato al soggetto in questo momento cruciale, 
affinché ne sposi tutti i soprassalti e ne beva tutta l’amarezza, in una paziente attesa della 
grazia che vi deve sgorgare.”
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Vediamo la donna Samaritana che è giunta al settimo marito attraverso i sei mariti, attraverso 
sei desideri, di cui nessuno l’ha soddisfatta. “Hai avuto cinque mariti e quello che hai ora non è 
tuo marito; in questo hai detto il vero” (Gv 4,18). Quando la Samaritana ha incontrato Cristo, 
lo Sposo dell’umanità, realizza la sponsalità delle sue relazioni. Cristo non ha chiesto alla 
Samaritana dove era stata, che cosa aveva fatto, perché non era arrivata prima... No, ma 
evidentemente la Samaritana doveva passare attraverso sei desideri diversi fino ad arrivare a 
desiderare l’acqua eterna. Perciò la donna poteva lasciare la brocca, simbolo della vita vecchia, 
di tutti i desideri mai soddisfatti, perché aveva trovato il vero Sposo, la relazione vera. 
9. Il colloquio spirituale dovrebbe favorire il raccoglimento nel proprio cuore.  
Quando si tiene nelle mani una perla, si cerca di maneggiarla con tanta cura, perché siamo 
consapevoli che è una cosa preziosa. Le distrazioni, in questo caso, perdono automaticamente 
di forza. La tentazione può parlare, ma non ci lasciamo confondere. La tentazione vorrebbe 
portarci da altre parti, ma noi andiamo avanti nell’aver sempre cura della perla. Vediamo allora 
che non è possibile parlare di raccoglimento spirituale se non c’è niente su cui essere raccolti. 
Esistono diversi esercizi psicologici, che ci fanno più o meno concentrare nello studio, ma non 
siamo ancora arrivati all’acquisizione di un atteggiamento di raccoglimento interiore, nel cuore, 
che prende vita dopo avere capito, scoperto, riconosciuto, sperimentato, che la sorgente 
d’acqua che zampilla per la vita eterna è dentro il nostro cuore. Ecco la nostra perla, la nostra 
speranza, che “non delude, perché l’amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo 
dello Spirito Santo” (Rm 5,5). Il raccoglimento spirituale ci porta ad un atteggiamento di 
continua adorazione per la preziosità che portiamo dentro, il che significa che automaticamente 
sgorga la preghiera incessante nel nostro cuore. 
E’ indispensabile quindi la ricerca di quell’unica  perla, di quell’unico centro (cf Rm 5,5), il 
fondamento in Cristo: “nessuno può porre un fondamento diverso da quello che già vi si trova, 
che è Gesù Cristo. E se sopra questo fondamento si  costruisce con oro, argento, pietre 
preziose, legno, fieno, paglia, l’opera di ciascuno sarà ben visibile: la farà conoscere quel 
giorno che si manifesterà col fuoco, e il fuoco proverà la qualità dell’opera di ciascuno. Se 
l’opera che uno costruì sul fondamento resisterà, costui ne riceverà una ricompensa” (1Cor 
3,11-16) e il senso della sua vita, che è nel rimanere per sempre in Cristo e Cristo in noi (cf Gv 
15).  
10. Il colloquio spirituale porta sempre di più alla vera conoscenza di Dio, di se stessi e del 
mondo perché ci fa seguire il cammino della purificazione dalla falsa immagine di Dio, di me e 
di noi, delle relazioni, dell’amore. Ammettendo sempre di più chi è Dio nella sua verità nei 
nostri confronti, quale Padre che ci ama, allora si riscopre la vera figliolanza e si approfondisce 
la consapevolezza che tutto è grazia di Dio. Sentiamo Cristo che ci ricorda: “Senza di me non 
potete fare nulla” (Gv 15,5) e san Paolo: “Tutto posso in Colui che mi dà la forza” (Fil 4,13). 
Il cammino della vera conoscenza di Dio, di me e del mondo non arriva mai velocemente e 
deve includere la grazia della rivelazione stessa di Dio all’uomo. Dio cerca nella persona la 
possibilità di rivelarsi, di rivelare il suo Volto. Nello stesso momento, anche la persona comincia 
a sentire la necessità di aprirsi sempre di più, di rivelarsi a Dio e anche agli altri nella sua 
autenticità; quindi, lentamente riesce anche a far cadere il mantello delle false protezioni e le 
maschere dei giochi cominciano a sciogliersi. A proposito di questo, Rosmini si esprime in 
questi termini: “l’essere tentato dai mali, e quasi oppresso, abbassa l’altezza del nostro 
pensiero, e ci costringe, quasi involontariamente,  a riconoscere ciò che siamo, senz’alcuna 
illusione. E il senso di tanta nostra miseria viene reso dalla grazia il veicolo che ci conduce alla cognizione di Dio. Poiché non trovando in noi altro che miseria, e non altro in questo mondo 
che tribolazione, il nostro cuore, che non può starsi senza un bene ed un amore, si rivolge 
finalmente a Dio, quasi per una felice necessità di cui si serve la grazia, e in Dio interamente si 
abbandona; ed allora incomincia a riconoscerlo per il vero Bene, e ad averlo per il solo suo 
Amore, e sente – oh quanto! – la verità di quelle parole di Gesù Cristo: Venite a me, o voi tutti 
che siete affaticati e oppressi, ed io vi ristorerò.”
57
  
Alle volte ci vuole un lungo cammino per avere il coraggio di ammettere le proprie illusioni, i 
falsi appoggi e sicurezze e riconoscere che quello  che volevamo diventare partendo dalle 
nostre capacità, o volevamo far apparire davanti agli occhi degli altri, non sta in piedi e non 
viene costruito sulla roccia, ma sulla sabbia. Infatti, quando in noi stessi non riusciamo a 
trovare nessun appoggio, cominciamo a cercarlo in Dio e questa è la grazia più grande per 
capire chi siamo realmente e veramente davanti a Dio. La nostra più grande verità è che senza 
Dio non possiamo vivere (cf Gv 15). Non conta se siamo capaci o meno, se siamo bravi o no. E 
anche se avessimo migliaia di capacità e di possibilità di fare bene le cose, finché non viviamo 
da figli, non viviamo dalla nostra verità più profonda e autentica. 
11. Il colloquio spirituale conduce alla cristoformità, per la quale non abbiamo bisogno di tanti 
libri di teologia o di spiritualità, ma di persone che, con la loro testimonianza, trasmettono la vita
vissuta in Cristo, per Cristo e con Cristo e che indicano la strada verso il Padre. Proprio perché 
queste hanno vissuto come Cristo, inevitabilmente fanno vedere che la via personale passa per la 
via crucis, che include la logica pasquale, senza la quale non si potrebbe mai arrivare alla 
cristoformità.  
Quando nasce un bambino, spesso i parenti dicono che ha gli occhi del papà, la bocca della 
nonna, le dita della mamma, ed è naturale cercare le somiglianze. E la somiglianza con Cristo 
che cosa significa? La cristoformità richiede la visione integra di Cristo, altrimenti è facile 
vedere in Cristo un’immagine ridotta a certi fatti, identificarlo con un taumaturgo, escludendo 
la via pasquale. Una visione parziale di Cristo permette all’uomo di prendere solo quelle parti 
che piacciono, che lo attirano. Non è impossibile allora trovare in Cristo solo alcune cose che 
piacciono anche ai sensi: Egli ha mangiato, ha visitato le persone, ha camminato, ha parlato, 
viaggiava sulla barca... Siccome Cristo ha realizzato tutto ciò che ha insegnato, ci vuole 
necessariamente una visione totale e integra della sua Persona che ha offerto la vita per tutti 
ed è risuscitato il terzo giorno. La cristoformità include tutto ciò che Lui ha insegnato e vissuto, 
anche il Getsemani, la croce e la morte. Bisogna però dire che Cristo non ha sofferto per 
soffrire, ma ha sofferto per rivelare l’amore divino, che non avrà mai fine. L’amore divino ha 
sempre infatti due aspetti: uno svela il lato tragico dell’amore, il sacrificio, l’altro il compimento
dell’amore sacrificale come gioia di questo sacrificio. E ogni amore maturo ha sempre queste 
due dimensioni. Senza la consolazione, la beatitudine, il sacrificio da solo, rischia di essere 
masochismo, e senza il sacrificio qualcosa di immaturo e di superficiale. 
Il problema che si pone è proprio come far entrare nella nostra vita la sofferenza, che a tutti i 
costi l’uomo vorrebbe eliminare. P. Molinié però fa vedere tutta un’altra visione della sofferenza 
dicendo che “non è la sofferenza che rende difficile la vita cristiana. La sofferenza è dolorosa 
(per definizione), ma non è pericolosa. Dio non la manda, per metterci in pericolo, ma per 
salvarci dal pericolo”,
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 per allontanarci dai falsi dei e dalle false ricerche di salvezza, che 
spesso però passano attraverso grandi dolori. Del dolore si intendeva molto bene lo scrittore 
russo Dostoevskij, grande artista, che è stato molti anni anche in prigione. Per lui: “la 
sofferenza è una buona cosa… tramite essa tutto è espiato!”
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 La sofferenza, vissuta in questo 
modo, fa scoprire i significati immensi della sapienza di vita. “Tutto ciò che viene sofferto nel 
buio, perché si ama, nell’altro mondo non è il buio ma la luce, allora il carbone nero con cui si 
disegna l’amore sulla terra, soffrendo e morendo diventa il colore della carità cioè il colore 
della luce”.
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Siamo chiamati però a lasciarci ispirare e a contemplare la sofferenza di Cristo Salvatore. Edith 
Stein ci richiama: “Se desideri raggiungere Cristo, non lo cercare mai senza la sua croce… il 
mistero della croce può capirlo solo chi è crocifisso… Noi siamo chiamati a patire con Cristo per collaborare alla sua opera di redenzione… Cristo continua a vivere in noi e soffre in noi. Così la 
nostra sofferenza è feconda.” E’ Gesù crocifisso che ci “farà capire la croce, e non la croce che 
ci farà capire Dio: al contrario la croce ci svela l’aspetto più incomprensibile di Dio.”
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 L’uomo 
vecchio deve morire per arrivare all’assimilazione  a Cristo e anche alla capacità di poterlo 
seguire nella sobrietà e non secondo modelli romantici. Gesù stesso ci dice: “Chi non prende la 
sua croce e non mi segue, non è degno di me” (Mt 10,38) e “Se hanno perseguitato me, 
perseguiteranno anche voi” (Gv 15,20).  
Queste parole ci fanno vedere e credere che “la sofferenza è una grande forza, perché santifica 
non soltanto gli innocenti, ma anche coloro che hanno peccato, che hanno sbagliato indirizzo di 
vita, ma che lo sanno ammettere”,
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 perché Cristo è morto per tutti. Allora la “sequela Christi” 
ci apre le immense dimensioni della cristoformità, ma tutte hanno in comune l’invito ad offrire 
le sofferenze e i dolori per qualcuno. Nei colloqui spirituali è molto importante aiutare le 
persone in questo accompagnamento, affinché non si chiudano nella sofferenza, ma rimangono 
nell’apertura della relazione, perché mettere nella relazione ciò che si sta offrendo significa 
dare al dolore un significato relazionale.  
Per questo è necessario nella via della cristoformità scoprire la pedagogia, la teologia della 
Croce. Il Cardinal Špidlìk dice che proprio “nell’atteggiamento verso Cristo sofferente si riflette 
la maturità della vita spirituale”.
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12. Il colloquio spirituale ci introduce ad una capacità contemplativa, alla visione di Cristo in 
tutte le cose, perché tutto porta incise le sue tracce, sia per la creazione – per mezzo di Cristo 
tutto è stato creato –, sia per la redenzione – Cristo ha già assunto su di sé tutto il male del 
mondo. Quindi niente è escluso da Lui; solo da ciechi vediamo ancora tutta la realtà divisa, 
separata e rotta, ma in verità Cristo ha già unito tutto con il suo immenso amore. Anche nei 
momenti di grande dolore, con la grazia di Dio, possiamo già vedere come tutto è collegato in 
Lui, e pure lo smarrimento, la disperazione si possono trasformare, perché la grazia 
contemplativa, lo sguardo su Dio, porta il frutto di Dio, prima o poi.  
Siamo di nuovo lì al punto più importante dei colloqui spirituali, cioè la nostra salvezza.  
13. Il colloquio spirituale ci fa trasformare l’esperienza personale in esperienza spirituale sotto 
lo sguardo di Dio, chiedendosi che cosa vede Dio nella nostra concreta esperienza. Solo con 
questa domanda, riflessione e preghiera si può arrivare alla vera esperienza religiosa, 
spirituale. Se invece le cose vengono vissute solo in modo umano e interpretate soltanto a 
partire da noi, è impossibile arrivare ad una lettura spirituale. La nostra vita non va guardata 
solo con i nostri occhi, perché la semplice lettura psicologica dei fatti ancora non mi potrà 
salvare. Questo richiede a noi di fare il passo dall’esperienza soggettiva all’esperienza 
spirituale, superando solo uno sguardo puramente umano su di essa. Cristo è l’uomo perfetto, 
tutto quello che c’è di pienamente umano è già contenuto in Lui e l’umano trova la sua verità 
in Lui.  
14. Il colloquio spirituale ci fa edificare, costruire le colonne portanti, soprattutto sullo sfondo 
dei momenti di più grande prova nella nostra vita, perché il seme, per crescere veramente, 
deve morire. “In verità, in verità vi dico: se il chicco di grano caduto in terra non muore, 
rimane solo; se invece muore, produce molto frutto” (Gv 12,24). Ogni morte è preceduta da 
tante sofferenze, ma ciò non significa che la sofferenza vada cercata o provocata 
volontariamente. Ma quando si presenta, quando bussa sulla porta, va accolta e abbracciata.  
Le colonne spirituali quindi nascono dalle tribolazioni, dalle prove, perché le sofferenze e le 
prove hanno già dimostrato che il seme è già morto ed è già nato qualcosa di nuovo, la vita 
nuova: la colonna spirituale è già vita, frutto eterno della morte. E’ ovvio che nel momento 
della morte si soffre, ma la fede nel Dio vivo, che vince la morte, mi basta. La mia morte non 
la posso capire, la vita di dopo mi farà capire l’effetto della morte, perciò le colonne spirituali 
sono già la vita dopo la morte di qualche cosa di noi.  
Quindi, quando una persona sta nella prova, non cerca in primo luogo di capire i significati 
chiari di che cosa sta succedendo nel momento della morte del seme, ma approfondisce la fede
che dà la chiara certezza che questa è la strada e, a sua volta, quando i tempi saranno maturi, 
la luce di Cristo illuminerà anche le ombre.  
Ognuno di noi ha bisogno di essere aiutato in questo cammino. “Non vi è nulla di più 
miserevole e di più vulnerabile di coloro che non hanno una guida e cadono come le foglie… I 
rischi di smarrimento e di caduta, infatti, sono tanto più grandi quanto più si progredisce. Le 
trappole tese dai demoni sono tanto più numerose e più sottili quanto più l’uomo avanza e si 
avvicina al termine”.
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 Non è difficile incontrare persone che hanno già fatto un bel tratto di 
strada e, quando si sono trovate nella forte prova, sono tornate indietro, perché si sono 
trovate disarmate, impreparate alla lotta, oppure si sono trovate senza un valido aiuto della 
guida. San Callisto e sant’Ignazio Xantopuloi osservano che “coloro che vogliono camminare 
senza ricevere consigli seminano nella fatica e nel sudore e spesso non fanno altro che 
sognare”.
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 Per questo un ripetuto consiglio dei Padri è: “Se  non hai un maestro, devi 
cercartene uno a ogni costo”. 
15. Il colloquio spirituale favorisce la scoperta del mistero e dell’atteggiamento da assumere di 
fronte al mistero della vita, che richiede caratteristiche del tutto particolari, perché la 
sensibilità per il mistero ha un ruolo fondamentale nei colloqui spirituali. Mistero non significa 
non sapere, ignoranza, ma significa ammettere e riconoscere in noi e intorno a noi una 
grandezza che ci supera. “Ogni sicurezza cercata escludendo il mistero, in mezzo alle cose 
ovvie della vita pratica e alle suggestioni del cuore, resta in definitiva come la vita e il cuore, 
quando si basano su se stessi; perciò crollerà. Solo se tutto ciò viene trasceso nell’infinità di 
Dio, solo se anche la nostra esperienza viene ancorata a un aldilà dell’esperienza, possiamo 
sperare in sicurezza, stabilità e futuro duraturo”.
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Il mistero fa parte di Dio, e proprio per questo nei colloqui non dovrebbe mai mancare 
l’atteggiamento tipico di stare davanti al Mistero, perché solo così può nascere il dialogo 
aperto, altrimenti è fissato come un chiodo, già concluso in anticipo. Solo la consapevolezza di 
essere davanti a un grande mistero ci aiuta a non avere delle certezze, che possono essere 
assolutamente false, e si va avanti come un carro armato. Invece la persona spiritualmente 
sensibile usa anche un linguaggio che lo rispecchia. Impiega le parole in modo delicato: “Se ho 
capito bene…”, “Forse, volevi dire così…?”  
16. Il colloquio spirituale ci conduce alla capacità di amare sempre di più Dio e fratelli.  
Quando cresce nell’amore, automaticamente la persona riceve la forza spirituale; con la 
diminuzione dell’amore, diminuisce anche la forza di operare il bene. Se pensiamo ai santi, ai 
martiri, non ci sono dubbi, per loro la maggior grazia ricevuta dal Signore era quella di poter 
soffrire per Lui e in questo modo testimoniare il loro amore per Dio e per gli amici e, alle volte, 
anche per i nemici. E’ il segno della vera vita interiore: l’uomo nuovo è capace di amare senza 
riserva e benedire l’umanità con l’amore di Cristo. Ma per questa grandissima grazia bisogna 
supplicare molto ed avere tanta pazienza. Quando un discepolo rivolge la domanda a padre 
Cleopa, come si poteva salvare, questi risponde: “Pazienza, pazienza, pazienza. Il fratello 
chiese: che cosa devo sopportare pazientemente?, e il padre disse: Sopporta pazientemente gli 
insulti e il disonore per amore di Cristo!”
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17. Il colloquio spirituale fa maturare nella vera umiltà, perché l’umiltà porta alla docilità e la 
docilità al dialogo, alla relazione, alla fiducia e a tutto il resto a cui finora ci siamo riferiti.  
L’umiltà autentica, quindi, a differenza dell’umiltà falsa, è la maestra di tutte le esperienze 
spirituali che, prima o poi, portano alla sapienza  spirituale. Lo conferma anche sant’Antonio 
dicendo: “Vidi tutte le reti del Maligno distese sulla terra, e dissi gemendo: – Chi potrà mai 
scamparne? E udii una voce che mi disse: – L’umiltà”.
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 Quindi non conviene incoraggiare gli 
sforzi umani per acquisire l’umiltà, in quanto si tratta di una pura grazia di Dio, ma 
“l’accompagnatore dovrebbe pazientemente aspettare il proprio accompagnato nel luogo dove 
la grazia dolcemente lo spinge: quello dell’umiliazione e della contrizione del cuore, il luogo
della sua pasqua interiore, dove la nuova vita potrà sgorgare alla fine”.
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 Tuttavia alla vera 
umiltà, come frutto puro dello Spirito Santo, si arriva “attraverso un percorso inevitabile di 
umiliazione, [che] riesce ad eludere le astuzie di  questa manipolazione strana ed a ridurre 
l’influenza negativa del super-io, fino a renderlo tale da potersi egli stesso lasciare investire 
nell’interiore dallo Spirito”.
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Perché allora è tanto importante l’esperienza dell’umiliazione nel cammino spirituale? Perché è 
lo stato più favorevole che apre l’uomo all’azione dello Spirito Santo e alle sue grazie. Inoltre, 
è la più efficace per sciogliere il muro più duro,  cioè l’orgoglio e la superbia, il potere, il 
benessere superficiale. Superficialità, perfezionismo, narcisismo si vincono solo con 
l’umiliazione che, a sua volta, ci protegge dal rischio “di ridurre una vocazione o un percorso 
spirituale a uno specchio narcisistico dove ogni anima si ammira, rischiando come Narciso, di 
annegarvi”.
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In questo cammino è più che mai importante avere il senso delle proprie debolezze e della 
propria fragilità, per non rischiare di vantarsi di noi stessi e di contare sulle nostre forze e sulle
nostre capacità. Questo ci porterebbe prima o poi a trovarci nell’assolutizzare i doni, 
scindendoli dal Donatore. Riconoscere la nostra debolezza ci permette invece di sentire il 
bisogno di Lui e del suo amore e questo ci rende sensibili, pazienti e buoni anche verso gli altri. 
Si tratta di una vera prova, la quale si vince con le parole di san Paolo: “Di lui io mi vanterò! Di 
me stesso invece non mi vanterò, fuorché delle mie debolezze” (2Cor 12,5). E padre Cleopa 
diceva: “l’umiltà nasce dall’obbedienza senza brontolii”
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, quindi senza lamentele, 
mormorazioni e continue proteste. 
Se queste parole si prendono da un punto di vista psicologico, la persona facilmente si 
innervosisce, invece quando si scopre nell’obbedienza un valore spirituale fondamentale per la 
nostra salvezza, allora si riesce ad attingere la forza e la grazia e non c’è più bisogno di 
brontolare. Questo è il frutto spirituale e non quando decidiamo noi di non brontolare più. 
André Louf afferma che “si tratta di una virtù che rinvia non tanto alla generosità di ogni uomo 
di buona volontà, piuttosto ad un cammino concreto… Un tale percorso si gestisce non con gli 
sforzi dell’uomo, ma per mezzo dell’insondabile pedagogia che Dio stessa spiega al suo 
riguardo… e su questo percorso dell’umiliazione dello spirito, solo Dio può prendere l’iniziativa… 
L’umiliazione è in effetti l’ultima carta da giocare della pedagogia divina, quando Dio costata 
che qualcuno si trova sul punto di perdersi sul cammino della falsa virtù… solo un’anima alle 
prese con i tormenti dell’umiliazione può divenire sensibile alla grazia ed apprendere un po’ alla 
volta a farsi docile alla sua attività”.
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18. Il colloquio spirituale fa comprendere la parola di san Paolo: “questa infatti è la volontà di 
Dio, la vostra santificazione” (1Tes 4,3). 
Come alla cristoformità non si può giungere con una visione parziale di Cristo, così è anche per 
la santità. Occorre uno sguardo integrale su Cristo e sulla salvezza che ha operato. E’ ovvio 
che non possiamo santificarci da soli, ma ci può santificare solo lo Spirito, Colui che ci conduce 
alla cristoformità. Nella vita sempre possiamo scegliere, possiamo decidere in quanto liberi. Noi 
siamo santi nella misura in cui abbiamo deciso di aprirci al Santo, allo Spirito, alla sua 
presenza e alla sua azione che trova in noi e nella nostra vita spazio e ‘permesso’ di agire 
secondo il volere di Dio. Più diamo spazio, tempo, precedenza, ascolto, possibilità di agire, più 
lo Spirito agisce, più è presente e più realizza la sua promessa. L’obbedienza nella vita 
spirituale significa anzitutto acconsentire al movimento che ci rende nuova creatura, è questo 
passaggio dall’uomo vecchio all’uomo nuovo nato segretamente nelle acque battesimali, ed è 
una esigenza iscritta nel nostro battesimo: la docilità al principio della santificazione, cioè allo 
Spirito Santo.  
Dice Isaia: “così sarà della parola uscita dalla mia bocca, non ritornerà a me senza effetto, 
senza aver operato ciò che desidera e senza aver compiuto ciò per cui lo mandata” (55,11). La 
persona, a partire della Parola di Dio, ha la possibilità di realizzare la propria vita in modo 
totale in quanto tutto viene compito. E i santi sono testimoni di questo, a partire da san Paolo che dice: “Siamo infatti tribolati da ogni parte, ma non schiacciati; siamo sconvolti ma non 
disperati; perseguitati ma non abbandonati; colpiti ma non uccisi, portando sempre e 
dovunque nel nostro corpo la morte di Gesù, perché  anche la vita di Gesù si manifesti nel 
nostro corpo” (2Cor 4,8-10). Paolo sapeva bene che le tribolazioni sono riservate a tutti e che 
è proprio quando si pensa di esserne esenti il momento in cui esse sono più vicine. Pace e gioia 
spirituali possono venire solo da Dio e proprio per questo possono diventare un aiuto vero nei 
momenti di inquietudine, di persecuzione, di prove, di conflitti, di malumori… Paolo ha 
sperimentato sulla propria pelle che non c’è nessun momento della vita così grave nel quale 
non si possa sopravvivere, poiché si è sempre sorretti da una forza interiore che è più grande 
di noi e che va al di là di tutte le difficoltà. Dio si manifesta spesso in maniera sorprendente. 
Tante volte succede che qualcosa ci fa soffrire molto, ma tutto si svolge nel silenzio, senza 
capire minimamente che cosa sta succedendo e che cosa possa significare. Forse solo dopo 
tanto tempo, quando il tempo ha già fatto calmare i dolori e le lotte interiori, la persona smette 
anche di cercare le spiegazioni, perché ormai non ce n’è più bisogno. Spesso è proprio il 
tormento il ponte che ci fa fare certi passaggi spirituali e alle volte è addirittura necessario, 
anzi sarebbe pericoloso immaginarsi una vita senza lotte e senza tormenti, perché la persona 
facilmente rischierebbe un atteggiamento di rassegnazione, che fa diminuire addirittura la 
vigilanza spirituale. Un tale compiacimento potrebbe rappresentare un ostacolo di fronte alle 
azioni dello Spirito Santo. San Paolo stesso ci dice che “è necessario attraversare molte 
tribolazioni per entrare nel regno di Dio” (At 14,22), e Cristo ai discepoli di Emmaus ricorda: 
“non bisognava che il Cristo sopportasse queste sofferenze?” (Lc 24,26). Dal momento in cui 
aderiamo con fiducia, nel momento in cui crediamo che anche le tribolazioni sono necessarie, 
possiamo benedire “Dio, Padre del Signore Gesù Cristo…, il quale ci consola in ogni nostra 
tribolazione perché possiamo anche noi consolare quelli che si trovano in qualsiasi genere di 
afflizione con la consolazione con cui siamo consolati noi stessi da Dio” (2Cor 1,3). 
19. Il colloquio spirituale prepara anche alla morte, alla vita eterna, perché la morte non tronca 
le relazioni. Non è un caso che anche sant’Ignazio di Loyola consiglia di aver presente sempre 
il momento della morte per poter vivere per le cose essenziali. “Padre Cleopa era solito dire 
che la più grande saggezza che protegge l’uomo da tutto il peccato e lo conduce in paradiso, 
alla felicità eterna, è la morte e la meditazione della morte. E avere sempre nella mente e nel 
cuore la preghiera di Gesù”.
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 E anche gli antichi Padri spesso dicevano che bisogna pregare 
per l’ultima ora. Pensare alla morte non significa  pensare ai funerali, e vedere come tutti 
piangono, come nei funerali tutti pensano che sia morta una grande persona della quale si 
ricorderanno per sempre. Non è questo. Prendiamo l’esempio di una mamma che sta a casa, 
ed è preoccupata di tante cose, come pagare i conti, come sistemare l’ambiente, come…, e le 
arriva una telefonata: “tuo figlio ha avuto un incidente ed è molto grave”. In quell’istante 
spariscono tutte le preoccupazioni, l’unico pensiero che conta è come far vincere la vita. 
Quindi, il pensiero della morte è quel momento della vita che mi fa filtrare ogni esperienza e mi 
aiuta a non dimenticare le cose più importanti, essenziali della vita, con il loro peso spirituale. 
Quando facciamo l’esperienza di stare con qualcuno che è sul letto di morte, i nostri pensieri, 
sentimenti, progetti ecc. scendono automaticamente  al piano inferiore. Questi momenti ci 
purificano, ci liberano dal superfluo. Quindi anche pensare alla nostra morte – che non si sa 
quando arriverà, ma siamo solo certi che un giorno di sicuro arriverà –, ci aiuta a distinguere e 
a discernere ciò che è importante da ciò che è meno importante, per cosa combattere e che 
cosa bisogna lasciar perdere, perché sappiamo che ogni cosa è niente di fronte alla morte.  
Anche il consiglio che padre Cleopa dava più frequentemente sia ai monaci che ai laici era 
questo: “Se volete andare avanti fino a Dio, avete bisogno di due muri, ma non muri fatti di 
mattoni, non muri fatti di pietre, di terra, ma di due muri spirituali: abbiate il timore di Dio 
nella mano destra, perché il profeta Daniele dice: ‘con il timore di Dio l’uomo è stornato dal 
male’, e nella mano sinistra abbiate il timore della morte, perché dice il figlio di Sirach: ‘figlio, 
ricorda la tua fine e non peccherai’. Queste due opere buone, cioè il timore di Dio e la 
meditazione della morte salvano l’uomo da ogni peccato”.
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 Ecco la migliore preparazione per 
la morte: non la paura per essa, ma il timore, per trovarmi sempre preparato. Porto un altro 
esempio di padre Cleopa da cui si vede come la morte non tronca i rapporti, ma anzi rafforza la capacità di aiuto spirituale: un mese prima della sua morte, diceva a una donna: “Sorella, 
quando verrai di nuovo a Sihastria, vieni alla croce nel cimitero e dimmi ogni cosa che hai da 
dirmi e, se Dio vuole, io ti ascolterò e ti aiuterò”.
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Inoltre possiamo ricordarci dell’esempio di Dostoevskij, uno tra i più grandi scrittori russi. Sua 
figlia racconta che suo padre, “nel momento di dare l’ultima benedizione ai suoi figli ha chiesto 
di leggere la parabola del figlio prodigo. Su questa sintesi evangelica del destino di ogni uomo 
e della sua fede radiosa egli ha preso congedo: ricordatevi sempre il perdono del padre e la 
sua gioia di perdonare”.
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 Dostoevskij ha saputo cogliere l’essenziale della vita, che si ritrova 
nel perdono, nel sacramento che trasforma la sterilità nella fecondità. Questo è ciò che conta 
nel momento della morte: perdonarci, come il Padre  ha perdonato il figlio prodigo e lo ha 
abbracciato con amore misericordioso. 

lunedì 5 agosto 2013

I Padri non parlavano solo all’intelletto, non illuminavano solo la mente, ma parlavano all’uomo intero, riscaldavano il cuore.


Marina Štremfelj
Centro Aletti

LE QUALITA’ DELL’ACCOMPAGNATORE SPIRITUALE


14. L’accompagnatore spirituale favorisce l’unità, l’armonia di tutti e di tutto.
“Con la parola edifica,
con la mano scrive e con l’atto e
la vita consiglia”, I. BALAN, Il mio padre spirituale , cit., p. 131
per favorire l’armonia della persona.
Così, tutto giova per una unità spirituale.
I Padri non parlavano solo all’intelletto, non illuminavano solo la mente, ma parlavano all’uomo intero, riscaldavano il cuore.
Proprio nella vita cristiana,
occorre stare attenti a perseguire l’organicità di tutte le dimensioni
che la rendono tale e
che talvolta pratichiamo in modo separato,
come tanti cassetti isolati:
la formazione,
la vita morale,
la missione,
la liturgia,
la spiritualità...
Gli uomini educati nell’antica cultura greca
avevano “un senso squisito per l’armonia.
Sentivano quindi dolorosamente la confusione che regna nella vita sociale e nell’uomo stesso.
Ma non sono gli astri che creano la pace del cosmo,
ma la parola creatrice di Dio.
Essa è quindi il principio primo che unifica la vita umana.
I marinai, scrive san Basilio, dirigono il corso della nave guardando le stelle.
Il cristiano, per non sbagliare la strada, guarda le parole divine, i comandamenti della Scrittura.
Ma che cos’è la parola di Dio?, si chiede Basilio...
Essa è il principio unificante della nostra vita disgregata dal peccato e dalla dimenticanza di Dio... Dio continua a rivolgere agli uomini la sua parola attraverso la storia, molte volte ed in diversi modi (cf Eb 1,1).
Nel tumulto del mondo essa viene spesso soffocata; nel silenzio invece risuona ad alta voce e porta nella nostra vita l’armonia e la pace.”4 Emerge l’importanza della Parola di Dio nel processo di integrazione spirituale che continuamente ci indica Dio e riporta tutto all’unico vero centro, a Dio, che è l’unica Persona centrale, fondamentale per l’uomo. Proprio oggi che il mondo è profondamente diviso da tante contrapposizioni, il Vangelo è, in primo luogo, un messaggio di riconciliazione e un appello all’unità.

domenica 4 agosto 2013

farsi tanto più indietro quanto più si penetra nel rapporto interiore tra uomo e Dio


Marina Štremfelj
Centro Aletti

LE QUALITA’ DELL’ACCOMPAGNATORE SPIRITUALE

13. L’accompagnatore spirituale non è importante.
“Quanto più il discepolo progredisce, tanto più il maestro si metterà da parte e, da maestro, diventerà un compagno o perfino un discepolo.”
L’accompagnatore spirituale “deve sapere che
la sua forza determinante deve farsi tanto più indietro quanto più si penetra nel rapporto interiore tra uomo e Dio.”
L’accompagnamento spirituale diventa quindi un’esperienza spirituale per tutte e due le persone, perché si cercano insieme le cose che conducono a Dio.