Tappe ascetiche e aspetti pratici della Preghiera di Gesù
O. Clement, J. Serr, LA PREGHIERA DEL CUORE, ed.Ancora
Simultaneamente, ma a poco a poco,
interviene la terza tappa,
quella della partecipazione alla luce increata nella comunione con il Signore Gesù,
comunione trinitaria, come abbiamo detto;
perché nell’interiorità dello Spirito ci conduce verso « il seno del Padre ».
Gregorio il Sinaita dice che la preghiera comincia a sgorgare nel cuore
come le scintille da un fuoco giulivo:
la luce increata sì manifesta dapprima con fiammate di indicibile dolcezza.
Poi, dice lo stesso Gregorio, nel cuore divenuto cosciente,
la preghiera « opera come una luce di buon odore ».
Non si tratta tanto di estasi e di visioni:
le esaltazioni mistiche dei principianti devono essere rapidamente superate,
poiché potrebbero essere fonte di compiacenza e di orgoglio.
Il Signore allora si ritira perché l’uomo conosca l’ultimo spogliamento,
partendo dal quale verrà deificato, ma per pura grazia.
I grandi spirituali chiedono di diffidare delle visioni,
perché Satana può travestirsi in angelo di luce.
La liturgia, la salmodia, le icone soprattutto,
tendono a introdurre l’asceta, al di là di ogni fantasma,
in una sobria e realissima comunione.
I criteri del cammino giusto
sono la pace, la dolcezza, l’umiltà, e
non l’esaltazione che lascia l’anima turbata;
soprattutto la capacità di amare i propri nemici,
secondo il precetto evangelico.
Certo, i più grandi
- i più umili –
quelli che hanno raggiunto lo stadio della preghiera ininterrotta
hanno, per di più, attraversato i mondi angelici,
penetrando fino al trono di Dio
(il cuore infiammato si identifica qui con il carro di Elia, come nella mistica ebraica),
hanno conosciuto i fondamenti del mondo creato e gli esiti finali della storia,
sono stati visitati dalla Madre di Dio e dai santi.
Ma il risultato normale di questa ascesi è, partendo dal cuore,
la trasfigurazione del quotidiano con una luce
che è anche un fuoco e che non è un’emanazione anonima,
ma l’irradiazione stessa del Risorto,
la presenza segreta dello Spirito,
la trasformazione della trascendenza inaccessibile in paternità amorevole.
La visione, l’audizione, l’intelligenza, l’amore,
tutto si raccoglie in un’unica sensazione di Dio:
tutto è luce,
ma questa luce è increata,
ossia rimanda a una sorgente insieme inaccessibile per essenza e partecipabile per grazia.
Tutto è luce, ma questa luce è il contenuto di un incontro, di una comunione.
L’uomo entra allora
in un ritmo inesauribile di in-stasi/ex-stasi.
S. Gregorio di Nissa, partendo da un participio paolino (« teso verso »)
ha formato qui il termine di epectasi , dove epi designa l’in-stasi,
l’infinita prossimità di Dio che tutto intero si rende partecipabile,
mentre ek designa l’e-stasi,
la tensione amante verso questo Dio la cui distanza non si cancella,
« quello che si cerca sempre » nell’in-conoscenza della fede,
poiché tutto intero egli resta inaccessibile.
Questa distanza incessantemente colmata in Cristo,
e incessantemente riaperta verso l’abisso del Padre,
questa distanza-partecipazione costituisce il luogo stesso dello Spirito;
si iscrive e ci iscrive nel mistero della Trinità.
L’anima in via di deificazione,
il cuore cosciente che s’infiamma e s’invola con le ali della colomba,
diventa,
per riprendere un’espressione di Jean Daniélou,
un universo spirituale in espansione.
E ciò che è vero della relazione con Dio,
lo diventa della relazione con il prossimo,
come dello stupore davanti alla cosa più umile.
L’ascesi neptica ci fa definitivamente comprendere
che il cristianesimo non è una ideologia,
che non è un sapere assoluto,
ma è la non-conoscenza amante della fede e della diaconia.
Più conosco Dio, e più egli mi diventa meravigliosamente sconosciuto;
più conosco il prossimo, e più lo incontro con lo stupore della prima volta.
Più conosco la creazione di Dio,
e più sono colto dal suo mistero
(vi sarebbe qui, io credo, il germe di una nuova logica scientifica,
che mostri che cos’è l’irriducibilità del mistero
che suscita il dinamismo della ricerca).
La vita eterna comincia così fin da quaggiù.
Si va « di inizio in inizio, attraverso inizi che non hanno mai fine »,
come dice Gregorio di Nissa.
Non si tratta di « evadere dal tempo »,
come nella mistica dell’India,
o di abolire il tempo
come nel nirvana buddistico,
ma di accedere a una temporalità propriamente ecclesiale,
calcedonese nella quale il tempo e l’eternità si uniscono « senza separazione e senza confusione ».
Il ritmo di questa temporalità è quello della morte-risurrezione, della croce pasquale.
Esso introduce nelle situazioni di morte della nostra esistenza
– fino all’estrema agonia –
l’esperienza che si concentra in quella del martire.
I martiri, nella storia della Chiesa, sono stati i primi venerati come santi.
Un martire non è semplicemente,
come troppo spesso si è creduto,
qualcuno che dà la vita per le sue idee:
un martire è colui che, nell’orrore della tortura e della morte,
si abbandona umilmente al Crocifisso-Risorto,
e così si trova ripieno della gioia della risurrezione.
« Macinato dal dente delle fiere », diventa « pane eucaristico »,
come diceva Ignazio il Teoforo.
Ugualmente, il monaco, nella tradizione antica,
è insieme « stauroforo » e « pneumatofòro »,
portatore della croce e portatore dello Spirito,
colui che « dà il suo sangue e riceve lo Spirito »,
e con ciò stesso « un risuscitato »,
capace di conoscere fin nel suo corpo una pienezza ineffabile.
Questa temporalità fa affiorare grandi falde di pace e di luce nella densità degli esseri e delle cose, nella monotonia dei compiti quotidiani.
L’instasi-estasi nell’incontro con l’altro diventa servizio, amore attivo e inventivo.
Questa temporalità, infine, ha sapore di silenzio.
Non il cattivo silenzio del vuoto e della disperazione,
il silenzio gelido della solitudine,
ma il silenzio pieno,
il silenzio divino,
quel « linguaggio del mondo futuro », come diceva Isacco il Siro.
L’invocazione deve allora aprirsi sul silenzio.
All’inizio con brevi momenti di silenzio intercalati tra gli appelli.
Poi in una specie di aleggiamento interiore,
nell’azzurro d’un cuore cosciente,
secondo una penetrazione dell’interiorità “pneumatica” del Nome di Gesù.
Poiché il silenzio riposa nel Nome come lo Spirito,
da tutta l’eternità,
riposa nel Verbo,
come costituisce l’unzione messianica, cristica, del Verbo incarnato.
E quando lo Spirito è presente,
non bisogna più pregare,
ma tacere in lui, per riprendere, ad esempio, l’insegnamento di S. Serafino di Sarov.
Si dice sempre che la mistica litn urgica, nella Chiesa ortodossa, è al servizio della Parola; ma è anche al servizio del silenzio: apre la parola su un interno di silenzio. La stessa cosa avviene per il gregoriano.
La “preghiera di Gesù” fa del cuore di ciascuno una cella monastica,
dove egli è « solo con il Solo », nel silenzio.
L’ascesi neptica insegna a tacere.
Ma il silenzio cristiano è inseparabile da una parola rinnovata.
A un dato momento, il silenzioso, l’esicasta, riceve il carisma della parola di vita:
che va dal cuore al cuore, parola-seme.
Uno degli affreschi più noti dell’Athos rappresenta un monaco crocifisso,
ma che emana fiamme.
Quelli che sono come lui, sono “uomini apostolici”,
che parlano di ciò che esperimentano,
e la cui parola è piena di tutta la potenza dello Spirito.
Gli altri – ed è quello che io sto tentando – si contentano,
facendosi piccoli, di portare la loro testimonianza,
e cercano di essere, con la parola o con la penna,
ciò che un pittore di icone è con il pennello.
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