Tappe ascetiche e aspetti pratici della Preghiera di Gesù
O. Clement, J. Serr, LA PREGHIERA DEL CUORE, ed.Ancora
Le vane parole designano non soltanto, nella vita quotidiana,
le parole che «cosificano» l’altro e lo respingono infinitamente lontano
– in definitiva, un gesto di uccisione –
ma, più ampiamente,
ogni esercizio del pensiero e dell’immaginazione
che si separa dalle forze del cuore,
per diventare un gioco autonomo della volontà di potenza o dei fantasmi.
« Concedi, a me tuo servo, uno spirito di integralità, di umiltà, di pazienza e di amore… ».
Ecco, invece, il movimento delle “virtù“:
la fede, che sta a fondamento, è ricordata innanzitutto:
l’uomo è un servitore.
L’integralità sintetizza l’insieme:
essa evoca l’unificazione dell’esistenza nell’incontro con il Dio vivente,
e dunque con il prossimo,
l’assunzione nella fede, nella speranza e nell’amore,
sia dell’intelligenza come di tutta la forza vitale.
L’umiltà è l’iscrizione concreta della fede nel quotidiano,
l’espressione della rivoluzione copernicana
che ci strappa dalla «filautia»
per restituire a Dio la sua distanza e la sua prossimità.
Per i Padri neptici, è
la virtù fondamentale, propriamente evangelica,
l’atteggiamento che differenzia il pubblicano
(le cui parole sono riprese nella “preghiera di Gesù“)
dal fariseo infinitamente virtuoso
ma così poco sensibile alla grazia, alla gratuità della salvezza…
S. Giovanni Climaco ha vigorosamente ricordato la forza paradossale della debolezza:
« Non ho digiunato,
non ho vegliato,
non ho dormito sulla nuda terra,
ma mi sono umiliato,
e il Signore mi ha salvato ».
Dalla fede e dall’umiltà nasce la pazienza
che è l’umiltà in atto.
Come questa esprime la fede,
così la pazienza è animata di speranza.
E’ il contrario dell’abbattimento
che proviene dal desiderio di avere tutto e subito;
è la riconoscenza per le briciole
che cadono dalla tavola del festino messianico;
è, soprattutto, una fiducia totale quando Dio si ritira,
quando le sue vie appaiono incomprensibili.
I Padri hanno spesso evocato la « pazienza di Giobbe »:
Giobbe rifiuta i ragionamenti dei teologi patentati,
ma, pur contestando Dio, non lo nega,
rimane con lui,
sa che Qualcuno lo cerca
attraverso l’esperienza stessa del male radicale.
E tutto culmina nell’amore
che costituisce il contrario della « dominazione ».
Colui che ama, « dà la propria vita per i suoi amici »;
non cerca il dominio,
ma il servizio.
Svuotandosi di sé per far posto a Dio,
si trova aperto all’altro,
accoglie senza giudicare,
discerne la persona al di là dei suoi « personaggi »
che sa esorcizzare in silenzio;
e fa irradiare la vita vera.
« Sì, Signore,
concedimi di vedere i miei peccati e di non giudicare il mio fratello,
perché tu sei benedetto nei secoli dei secoli. Amen ».
L’ultima domanda, che chiude la preghiera su una benedizione,
ricorda le condizioni dell’amore:
« vedere i propri peccati», e « non giudicare ».
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