So che questo post, tratto da uno degli ultimi scritti di Martini, meriterebbe essere digerito lentamente ma la l'ordito intessuto dal Cardinale ne esalterà la ricchezza e la complessità. Una volta finito e la nostra riflessione lo gusterà nel suo insieme, come si fa un un grande arazzo, quando allontanandoci troviamo il senso di quei fili e colori che si incrociano.
Una rete di relazioni
Parto dallo scritto di una giovane ragazza ebrea, Etty Hillesum, morta ad Auschwitz nel 1943 all’età di ventinove anni. All’inizio degli orrori della Shoah, quando ormai regnava confusione e terrore fra gli Ebrei in Olanda riguardo alla loro sorte, il giorno 11 di luglio del 1942 (quel giorno era Shabbat), ella scrisse nel suo Diario: «Se Dio non mi aiuterà più, allora sarò io ad aiutare Dio». E il giorno successivo, di domenica, ella scrive una lunga preghiera nel suo diario, oltre ad altri pensieri: «Cercherò di aiutarti affinché tu non venga distrutto dentro di me, ma a priori non posso promettere nulla. Una cosa, però, diventa sempre più evidente per me, e cioè che tu non puoi aiutare noi, ma che siamo noi a dovere aiutare te, e in questo modo aiutiamo noi stessi... Sembra che tu non possa far molto per modificare le circostanze attuali ma anch’esse fanno parte di questa vita… E quasi ad ogni battito del mio cuore, cresce la mia certezza: tu non puoi aiutarci, ma tocca a noi aiutare te, difendere fino all’ultimo la tua casa in noi».
Etty Hillesum scrisse questa pagina quando viveva il difficile passaggio dall’ateismo alla fede e scopriva a poco a poco lo sconosciuto volto di Dio. Ma queste parole, che possono creare sospetto alle menti formate in teologia, contengono una grande verità: Dio vuole farci attenti al nostro prossimo. Dio vuole non solo chiamarci alla solidarietà, la quale è definita come «un accordo generale tra tutte le persone di un gruppo o tra gruppi differenti poiché hanno un comune scopo» (cf. Longman, Dictionary of Contemporary English). Dio vuole molto più di questo, egli desidera un reale interessarsi degli uni per gli altri, un aversi a cuore, ad immagine della cura di Dio per ognuno di noi. Egli è sempre pronto a porre ad ognuno di noi il primordiale interrogativo che fu posto a Caino: «Dov’è tuo fratello Abele?» (Gen 4,9).
Per questo il Signore spesso non mostra il suo volto, ma splende nell’aiuto dato ad un altro. Ciò è chiaramente espresso nella parabola dell’ultimo giudizio, nel vangelo di Matteo (25,31.46), dove il Signore dice a quelli che hanno aiutato il prossimo: «Tu l’hai fatto a me» (25,40). Egli è presente in ogni opera amorevole, in tutti i gesti di perdono, nell’impegno di coloro che lottano contro la violenza, l’odio, la carestia, la sofferenza e via di seguito.
Come dice Sant’Agostino: «Non rattristatevi o lamentatevi perché nasceste in un tempo dove non potete più vedere Dio nella carne.
Egli infatti non ti tolse questo privilegio.
Come egli dice: Qualunque cosa voi fate ai miei fratelli, l’avete fatta a me».
Coloro che hanno il dono dell’intercessione vedono la luce di Dio nel volto di ogni essere umano. In altre parole noi possiamo dire che costoro considerano il mondo come una grande rete di relazioni (nel linguaggio dei computers il web), dove ciascuno è dipendente dagli altri.
Tutto ciò è espresso con forza nelle parole dello staretz Zosima, una delle figure chiave del capolavoro di Dostoevskij, I fratelli Karamazov. Queste sono le parole di padre Zosima: «Amate il popolo di Dio. Noi non siamo più santi della gente del mondo perché siamo venuti qui e ci siamo chiusi fra queste mura, ma anzi chiunque è venuto qui, già per il fatto di esserci venuto, ha riconosciuto in se stesso di essere peggiore della gente del mondo e di ogni uomo sulla Terra… E quanto più a lungo vivrà un monaco fra le sue quattro mura, tanto più profondamente dovrà rendersene conto.
Poiché in caso contrario non valeva la pena che venisse quaggiù. Ma quando riconoscerà non solo di essere peggiore di tutta la gente del mondo, ma anche di essere colpevole di fronte a tutti gli uomini, sulla Terra intera, di tutti i peccati universali e individuali, solo allora sarà raggiunto il fine della nostra unione.
Giacché sappiate, miei cari, che ciascuno di noi è colpevole di tutto e per tutti sulla Terra, questo è indubbio, non solo a causa della colpa comune originaria, ma ciascuno individualmente, per tutti gli uomini e per ogni uomo sulla Terra. Questa consapevolezza è il coronamento della vita di un monaco e anzi di ogni uomo sulla Terra. Poiché i monaci non sono uomini diversi dagli altri, ma sono soltanto come dovrebbero essere tutti sulla Terra.
Unicamente allora il nostro cuore si abbandonerà a un amore infinito, universale, che non conosca mai appagamento. Allora ciascuno di noi avrà la forza di conquistare con il suo amore il mondo intero e di purificare con le proprie lacrime tutti i peccati…».
Ed egli così conclude: «Non siate superbi.
Non siate superbi con i piccoli, non siate superbi nemmeno con i grandi. Non odiate chi vi respinge e disonora, chi vi ingiuria e calunnia. Non odiate gli atei, né i cattivi maestri e i materialisti, neppure i malvagi fra loro – per non parlare dei buoni giacché ve ne sono molti di buoni, specialmente ai nostri tempi. Ricordateli così nella vostra preghiera: 'Salva, o Signore, tutti coloro per i quali nessuno prega, salva anche quelli che non ti vogliono pregare'. E aggiungete anche: 'Non per orgoglio ti prego, o Signore, perché anch’io sono un vile peggio di tutto e di tutti…'».
Certamente questa interdipendenza, questa profonda e necessaria interconnessione, per cui ognuno di noi è vincolato a tutti gli altri, è una profondo mistero spirituale, che sarà manifestato nella sua pienezza nell’ultimo giorno, quando la realtà di questo mondo sarà resa chiara a tutte le nazioni; quando – ricordando le parole del profeta Isaia – il Signore «distruggerà su questo monte il velo posto sulla faccia di tutti i popoli» (Is 25,7), allora noi potremo capire quanto tutto è stato tessuto e tenuto insieme dal Signore di tutti e che noi abbiamo formato insieme un grande web di relazioni reciproche.
Oggi noi siamo chiamati a riconoscere poco alla volta questa mutua appartenenza, che caratterizza tutti i nostri atti, secondo il comandamento: «Tu amerai il tuo prossimo come te stesso» (Lev 19,18). Noi siamo chiamati ad osservare questo comandamento non solo attraverso le nostre azioni, ma anche nella preghiera di intercessione.
Carlo Maria Martini
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