Il termine notte oscura non è inventato da Giovanni, anche se è lui a fornirgli diffusione e fama, ma è ripreso dalla tradizione mistica, in particolare da Gregorio Nisseno, dallo Pseudo-Dionigi e da Taulero. Tuttavia fu Giovanni della Croce ad attribuirgli quel valore centrale che ne fa l’espressione sintetica dell’esperienza mistica.
Su di essa ci sono vari fraintendimenti,
il più frequente dei quali è quello di identificare notte oscura con sofferenza e nient’altro, senza tener presente che l’espressione si riferisce invece a tutti i momenti dell’esperienza e quindi anche a quello culminante, quando diventa “notte pacifica, abissale e oscura intelligenza divina”, allorché l’anima si unisce a Dio “trasformata dall’amore”.
Ma essa è notte, oltre tutto ciò, anche
perché è il luogo dove agisce la fede, che procede nell’oscurità, cioè nella non conoscenza dell’obiettivo finale.
Inoltre questa notte ha due modalità,
che sono l’attiva e la passiva,
la prima fatta di opportuni sforzi da parte dell’interessato,
la seconda data per grazia.
Si tratta dunque di una progressiva trasformazione,
che è una purificazione del soggetto,
il quale perde uno dopo l’altro i suoi attaccamenti ai sensi e alle facoltà psichiche (intelletto, immaginazione e desiderio).
Questa trasformazione purificante è di notevole interesse psicologico, perché il suo punto di partenza, sul quale poi si basa tutto il successivo sviluppo, consiste nel pratico riconoscimento che ogni desiderio è ingannevole, nel senso che nemmeno il desiderio realizzato riesce mai ad essere completamene o definitivamente appagante.
Il graduale raggiungimento di questa basilare convinzione (così contraria al comune sentire) determina quella che sopra chiamavamo ‘purificazione passiva’. Si tratta di un processo doloroso, in cui gli oggetti del desiderio perdono progressivamente significato, rivelando la loro sostanziale insoddisfacenza (è quello che nel buddhismo va sotto il nome di ‘prima nobile verità’ o riconoscimento di dukkha, la sofferenza universale). Dall’analisi accurata che l’autore fa di tutte le illusioni e gli errori in cui può cadere un principiante, si capisce che per Giovanni l’ultima illusione che deve cadere è quella che il cammino mistico possa diventare l’unico desiderio con promesse di appagamento, una volta che tutti gli altri si sono rivelati ingannevoli.
Anch’esso, il fine spirituale, deve quindi diventare una notte oscura, pena la sua fallacia; anch’esso deve deludere e non dare quello che all’inizio si sperava che desse. E proprio questo è il momento cruciale che è l’inizio della catarsi, il vero principio di un mutamento di rotta salvifico, perché solo in esso può generarsi la convinzione che tutte le attese sono fallaci e che l’unica realtà è il presente così com’è, nella sua nuda semplicità tranquillamente accettata, cioè contemplata con un semplice sguardo fiducioso-amoroso. Nel momento della rinuncia a ogni vana speranza (una deleteria passione dell’anima la definisce Giovanni) si può gustare un’autentica pace, che sembra anche l’unica possibile, perché solo in essa si è finalmente in unità con la vita (e dunque con Dio).
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