Quanto alla facoltà psichica della memoria, che ha soprattutto a che fare con l’immaginazione e la fantasia, anch’essa sarà abbandonata allorché apparirà evidente la sua inadeguatezza a cogliere Dio. Qui l’antidoto sarà la virtù della speranza, perché ha la caratteristica di fondarsi non su quanto vede ma su quanto attende, e il rimedio pratico sarà il concentrarsi sull’ascolto, altra facoltà meditativa per eccellenza, “attendendo in silenzio a Dio”.
La “volontà” è la facoltà desiderativa, gli affetti, anch’essi inadeguati a cogliere l’Assoluto, perché ottenebrati dalle quattro passioni che, nel linguaggio di Giovanni, sono
“gioia e dolore, speranza e timore”.
A ben guardare, le quattro passioni possono essere ridotte a due che non sembrano troppo diverse dal “desiderio” e dall’“avversione” della dottrina buddhista.
La speranza (che in quanto passione non ha evidentemente niente a che fare con l’omonima virtù teologale, di cui si è parlato poc’anzi)
è desiderio
e il timore
è avversione,
mentre gioia e dolore sono le immediate compagne della loro presenza.
Passioni però sono esse stesse nel momento che a loro si indulga.
Si ricordi, a questo proposito, l’espressiva metafora di Ajahn Chah riguardo al percorso spirituale.
Dice questo noto maestro thailandese, da poco scomparso, che
la vita conduce naturalmente verso la liberazione, come il fluire della corrente di un fiume porta un tronco verso il mare anche senza che esso lo voglia, ma che a ciò si oppongono due ostacoli, cioè la possibilità che il tronco si areni sulla riva destra o sulla sinistra e queste due rive ostacolanti il naturale processo sono appunto l’indulgere alla gioia e l’indulgere al dolore .
Ma per tornare agli affetti, alla cosiddetta “volontà”, essa ha come antidoto la carità,
che consiste nell’amare quanto Dio ama, cioè quanto la vita offre,
senza più essere attratto dalle preferenze individuali.
A proposito delle quali, l’autore non tralascia
occasione di sorridere di come si manifestino, tra gli spirituali, alcune di queste, che appaiono inutili e nocive.
Nessuna particolare preferenza, egli dice, va accordata alle immagini sensibili,
come quadri o statue, dato che
“la persona veramente devota ripone principalmente la sua devozione nell’invisibile”.
Se un’immagine è più miracolosa di un’altra, dice l’autore con spirito indipendente, ciò è dovuto alla devozione che vi si ripone.
E continua dicendo che spesso sono più efficaci le immagini solitarie perché sono lontane dal chiasso e dalla moltitudine e perché “a causa del movimento necessario per andarle a vedere l’affetto cresce di più”.
Così pure, i pellegrinaggi sono consigliabili solo quando sono solitari, e meglio se fatti in tempi non usuali.
“gioia e dolore, speranza e timore”.
A ben guardare, le quattro passioni possono essere ridotte a due che non sembrano troppo diverse dal “desiderio” e dall’“avversione” della dottrina buddhista.
La speranza (che in quanto passione non ha evidentemente niente a che fare con l’omonima virtù teologale, di cui si è parlato poc’anzi)
è desiderio
e il timore
è avversione,
mentre gioia e dolore sono le immediate compagne della loro presenza.
Passioni però sono esse stesse nel momento che a loro si indulga.
Si ricordi, a questo proposito, l’espressiva metafora di Ajahn Chah riguardo al percorso spirituale.
Dice questo noto maestro thailandese, da poco scomparso, che
la vita conduce naturalmente verso la liberazione, come il fluire della corrente di un fiume porta un tronco verso il mare anche senza che esso lo voglia, ma che a ciò si oppongono due ostacoli, cioè la possibilità che il tronco si areni sulla riva destra o sulla sinistra e queste due rive ostacolanti il naturale processo sono appunto l’indulgere alla gioia e l’indulgere al dolore .
Ma per tornare agli affetti, alla cosiddetta “volontà”, essa ha come antidoto la carità,
che consiste nell’amare quanto Dio ama, cioè quanto la vita offre,
senza più essere attratto dalle preferenze individuali.
A proposito delle quali, l’autore non tralascia
occasione di sorridere di come si manifestino, tra gli spirituali, alcune di queste, che appaiono inutili e nocive.
Nessuna particolare preferenza, egli dice, va accordata alle immagini sensibili,
come quadri o statue, dato che
“la persona veramente devota ripone principalmente la sua devozione nell’invisibile”.
Se un’immagine è più miracolosa di un’altra, dice l’autore con spirito indipendente, ciò è dovuto alla devozione che vi si ripone.
E continua dicendo che spesso sono più efficaci le immagini solitarie perché sono lontane dal chiasso e dalla moltitudine e perché “a causa del movimento necessario per andarle a vedere l’affetto cresce di più”.
Così pure, i pellegrinaggi sono consigliabili solo quando sono solitari, e meglio se fatti in tempi non usuali.
Non consiglierei a recarvisi quando v’è la folla poiché, ordinariamente, in tal caso si torna più distratti di quando siamo partiti. Molti anzi si decidono a fare tali pellegrinaggi più per svago che per devozione .
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