Questo testo esce in un tempo in cui la postmodernità non è più un termine da salotti artistici e filosofici, ma un fatto che non si può più ignorare. Con il crollo delle torri di New York la modernità è stata scossa fin nelle sue fondamenta.
E i percorsi del nostro pensiero cui per tanto tempo eravamo abituati - tanto da non rendercene nemmeno più conto - a un tratto non funzionano più, non ci portano lì dove vorremmo giungere.
Si parlava da tempo della fase della transizione, del nuovo paradigma, del nuovo ordine del mondo e dunque anche di una nuova visione dell'uomo che stava emergendo a conclusione di una grande epoca.
Il cristiano non condanna le epoche storiche, non sospetta i flussi della cultura, instaura verso di loro un atteggiamento positivo, anzi, forse come nessun altro può leggerli, comprenderli e illuminarli, con un approccio spirituale sapienziale che gli è proprio.
Ma questo non vuol dire che non partecipa al dolore, alla sofferenza e al sangue versato nei momenti drammatici della storia.
E adesso è certamente un momento della storia in cui le attese, almeno quelle della nostra civiltà, sono profondamente in crisi e sta emergendo una visione della storia, dell'uomo, del suo agire che ci spinge a esiliare dai nostri gusci ed esporci al momento crudo delle tensioni violente della storia.
In questo contesto diventa ridicola una formazione portata a un'autosservazione psicologica, una formazione basata sull'osservazione degli stati d'animo, un continuo interrogarsi su come ci si sente, come si è percepiti, accettati, un continuo rimuginare sulla propria storia.
Solo una formazione come paradigma pasquale che mette in una relazione dinamica ognuno con il Cristo pasquale e con la comunità è una formazione destinata ad avere qualcosa da dire, oggi e domani.
Oggi si cerca una formazione che abiliti l'uomo a quella contemplazione,
come direbbe Edith Stein,
che matura fino all'amore in modo che si possa vedere persino il bene nel male.
E i percorsi del nostro pensiero cui per tanto tempo eravamo abituati - tanto da non rendercene nemmeno più conto - a un tratto non funzionano più, non ci portano lì dove vorremmo giungere.
Si parlava da tempo della fase della transizione, del nuovo paradigma, del nuovo ordine del mondo e dunque anche di una nuova visione dell'uomo che stava emergendo a conclusione di una grande epoca.
Il cristiano non condanna le epoche storiche, non sospetta i flussi della cultura, instaura verso di loro un atteggiamento positivo, anzi, forse come nessun altro può leggerli, comprenderli e illuminarli, con un approccio spirituale sapienziale che gli è proprio.
Ma questo non vuol dire che non partecipa al dolore, alla sofferenza e al sangue versato nei momenti drammatici della storia.
E adesso è certamente un momento della storia in cui le attese, almeno quelle della nostra civiltà, sono profondamente in crisi e sta emergendo una visione della storia, dell'uomo, del suo agire che ci spinge a esiliare dai nostri gusci ed esporci al momento crudo delle tensioni violente della storia.
In questo contesto diventa ridicola una formazione portata a un'autosservazione psicologica, una formazione basata sull'osservazione degli stati d'animo, un continuo interrogarsi su come ci si sente, come si è percepiti, accettati, un continuo rimuginare sulla propria storia.
Solo una formazione come paradigma pasquale che mette in una relazione dinamica ognuno con il Cristo pasquale e con la comunità è una formazione destinata ad avere qualcosa da dire, oggi e domani.
Oggi si cerca una formazione che abiliti l'uomo a quella contemplazione,
come direbbe Edith Stein,
che matura fino all'amore in modo che si possa vedere persino il bene nel male.
Questo nuovo volume di padre Cencini ci viene incontro proprio in questo senso.
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