Apro un cassetto, un altro ancora, poi un armadio.
Per la miseria! non c’è un filo di spazio.
Mi dico “dovresti buttar via un po’ di roba” ma proprio non riesco a disfarmi di niente,
o meglio,
è insopportabile per me fare a meno di tutto quello
che ho desiderato, che ho dimenticato e poi cercato, che ha fatto parte dei miei giorni, della mia vita.
La sindrome dell’abbandono è una condizione
che ho vissuto nel momento stesso in cui sono venuta al mondo e, come un imprinting, è rimasto stampato per sempre nella mia memoria affettiva.
Deve essere per questo che vivo nel terrore di poter essere separata per sempre, per un motivo o per un altro, da quello a cui sono più attaccata, fosse anche un oggetto sprofondato e dimenticato nel più remoto angolo della mia casa.
E dire che il destino, una mattina, stabilisce tuo malgrado,
che puoi fare a meno di chi ti ha accompagnato il primo giorno a scuola e per un lungo tratto della vita.
Da un giorno all’altro, fai a meno di chi, con la sua voce, ha scandito il ritmo dei tuoi giorni ed era, ogni mattina, la sostanza di un altro giorno insieme.
E allora?
E allora si può vivere anche senza
il servizio spaiato da thè della bisnonna , dei vecchi libri del liceo, messaggeri d’amore inconsapevoli, tra l’ora di storia e quella di latino.
Puoi fare a meno delle carte stradali di mezza Europa e dei disegni sbiaditi di un’estate a Salisburgo. Vivrai lo stesso anche senza
il vecchio scialle in cui ogni tanto affondi il viso e che ha perso ormai l’odore della pelle di tua madre.
Vivrai, comunque, senza
le peonie di seta che comprasti al mercato di Honfleur, un mattino d’agosto che intorno c’era una luce che abbagliava i tuoi occhi e la tua vita. E tu fosti tanto sciocca da pensare che quell’attimo fosse l’eternità.
Le peonie di Honfleur
Di Annamaria Sessa
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